A contare, nel “vecchio” articolo 18, non sono stati gli effetti visibili; a contare sono stati quelli che non si sono potuti vedere. Se si guarda alle poche migliaia di licenziamenti individuali e alle poche centinaia di reintegrazioni ordinate dal giudice, alla relativa facilità con cui si sono fatte “ristrutturazioni” industriali e messi lavoratori “in mobilità” si può anche dire che in fondo è costato poco. Se si considerano le opportunità precluse a lavoratori e imprenditori, i costi dell’opporre la rigidità alla variabilità dei cicli economici e tecnologici, è costato tantissimo. Fa un certo effetto parlarne al passato.
Dopo tante battaglie, è necessario ricordare le due fallacie di cui è figlio il vecchio articolo 18, quella economica della “fine del lavoro” e quella giuridica del “diritto di proprietà” sul posto di lavoro. Oggi tutti riconoscono l’errore dei seguaci di Ned Ludd che distruggevano i telai meccanici; nessuno nutre più il timore su cui ironizzava Sismonde de Sismondi, «che un giorno il re, girando una manovella, faccia produrre dai suoi automi tutto il lavoro dell’Inghilterra».
Se oggi ritorna il mito della “fine del lavoro” è perché si pensa che this time is different: perché il salto tecnologico che rende l’informazione istantaneamente disponibile, e la globalizzazione che immette un miliardo di persone nell’armata di riserva del proletariato, rappresentano una discontinuità quale mai si è presentata nella storia.
Invece non è così. Anche in un anno di crisi il numero dei nuovi contratti di lavoro è di un ordine di grandezza superiore a quello dei licenziamenti: per esempio nel Veneto, nel 2011, i licenziamenti individuali e collettivi sono stati 34.478, mentre dall’ottobre 2010 a ottobre 2011 il totale delle assunzioni è stato di 845.800 unità. E, nel 2005, ultimo anno per cui si dispone di questi dati, tre quarti dei lavoratori che avevano perso il lavoro l’hanno ritrovato entro 12 mesi, e 9 su 10 entro 24: questo in Italia, senza strutture “scandinave” che attivamente promuovano l’incontro tra domanda e offerta.
I servizi di cui lamentiamo l’insufficienza o la mancanza, gli edifici e le infrastrutture non manutenute o cadenti, le Pompei che vanno in malora, sono tutti lavori in cerca di lavoratori. Gli skill shortages, le disoccupazioni frizionali per farraginosità nell’incontro tra domanda e offerta, sono presenti ovunque. Ma quando Alitalia è andata in crisi ai lavoratori in esubero sono stati garantiti 7 anni di trattamento di mobilità a spese dello stato.
Quanto costano i lavori che ci sono e non vengono fatti, i lavori che non ci sono e non vengono inventati? Quanto contribuisce alla stagnante produttività del Paese l’inefficienza di lavori non contendibili, e la depressione di chi è dichiarato non impiegabile in attesa di pensione?
La fallacia giuridica è quella che istituisce una sorta di “diritto di proprietà” al posto di lavoro. Come un edificio costruito in violazione del diritto di proprietà deve essere abbattuto, così il lavoratore licenziato avrebbe diritto a essere reintegrato nello stesso posto di lavoro. È per motivi logici, non solo per le conseguenze pratiche, che il rapporto di lavoro deve essere regolato da una liability rule, che preveda l’obbligo a indennizzare chi subisce un pregiudizio senza sua colpa, e non da una property rule che equivale a una sorta di manomorta sul posto di lavoro: questa, analogamente alla manomorta su terreni e fondi, rende non contendibili e difficilmente riutilizzabili certi posti di lavoro.
L’articolo 18 è diventato il vessillo della cultura giuridica arroccata in difesa della inderogabilità delle norme dei contratti collettivi. Per questo esso è il nodo cruciale di tutta la riforma del mercato del lavoro. Per questo non è infondato il timore che il residuo potere del magistrato – in termini di congruità dei motivi disciplinari, e forse perfino di accertamento della discriminazione – possa divenirne il surrogato.
Finora la giurisprudenza tendeva a riconoscere i rami secchi solo quando l’azienda aveva già i libri in rosso: sarebbe un controsenso se la mancanza disciplinare venisse ristretta con giustificazioni sociologiche, e la discriminazione venisse allargata a comprendere le asperità e insofferenze che si sviluppano nei rapporti quotidiani, e non solo sul luogo di lavoro. A maggior ragione ora che la procedura vale anche per le aziende con meno di 15 dipendenti, è necessario che la legge sia precisa nel definire e circoscrivere. Valeva per il “vecchio” articolo 18, varrà anche per la nuova norma, quello che ci ricorda Henry Hazlitt in un piccolo grande classico (L’economia in una lezione, Ibl Libri, 2011): «l’arte della politica economica» è imparare a considerare anche ciò che non si vede e non solo quel che si vede.
Franco Debenedetti, Il sole 24 Ore