Architetti- choc: giovani, poveri ma felici. E il sogno ora è diventare dipendenti

Tratto da IL CORRIERE DELLA SERA di Venerdì 18 novembre 2011

BEDRONE (ORDINE DI TORINO):«SÌ ALLE SOCIETÀ PROFESSIONALI»

Redditi bassi, lavoro nero, abolizione tariffe minime, eppure l’82% degli under 40 torinesi è soddisfatto

Di Fabio Savelli

MILANO – Poveri ma belli. Senza ricorrere a Dino Risi e alla cinematografia d’antan è la sintesi forse più appropriata della professione di architetto. Lo studio, certo, ha connotati localistici perché è uno spaccato della professione nella provincia a vocazione manifatturiera per eccellenza: Torino. Ma – assicura Riccardo Bedrone, presidente dell’ordine locale – «è una rappresentazione fedele della situazione generale degli architetti under 40 nel nostro Paese».

 

LO STUDIO – La sorpresa: diventare architetti non è una professione anti-ciclica, anche se sta crescendo a dismisura il numero degli iscritti all’ordine (circa 150mila in tutta Italia) e per forza di cose c’è un eccesso di offerta rispetto a una domanda piuttosto stagnante. Eppure l’88% dei giovani architetti freschi di laurea trova lavoro nel giro di qualche anno. Solo i medici (che però di fatto già lavorano durante il percorso di specializzazione post-lauream) e gli ingegneri hanno tassi di occupazione superiore.

I REDDITI – Eppure è proprio qui che cominciano i problemi: il reddito medio in ingresso per un giovane è sugli 800 euro mensili (solo i neo-psicologi sono messi peggio). E alla soglia dei trent’anni solo un terzo ha una forma di titolarità/contitolarità nello studio in cui esercita la professione (generalmente i “figli di papà”, quelli che ereditano lo studio da un genitore architetto). Un altro 33% è un libero professionista/consulente, il restante è dipendente, con le forme contrattuali più disparate e spesso iper-precarie. La certezza della professione semmai è un’altra: l’apertura della partita Iva. Il 78% degli architetti ne è in possesso e una gran parte è costretta ad aprirla per poter lavorare per clienti e committenti.

LE CRITICITA‘– Dice Bedrone che il problema – utilizzando un lessico caro ai ceti produttivi – è sia a monte, sia a valle della filiera. «Occorrerebbe ripensare i meccanismi di ingresso ai corsi di laurea universitaria – afferma Bedrone – creando una sorta d’imbuto con test selettivi e meritocratici e svolgendo un’adeguata campagna informativa negli anni delle superiori perché il rischio è che alla fine della carriera accademica si finisca per fare altro». D’altronde viene subito da pensare che questa professione stia diventando sempre più classista e familista. Se il reddito medio è persino più basso dell’asticella cara – si fa per dire – alla “generazione mille euro” il corollario è che per intraprendere la carriera dei propri sogni sia necessario un sostegno dell’ammortizzatore sociale per eccellenza: la famiglia.

IL DUMPING SALARIALE – E qui siamo a valle della filiera, contraddistinta – spiega Bedrone – da quello che può chiamarsi “dumping salariale”: «I giovani architetti – dice Bedrone – spesso lavorano con paghe da fame (circa 5/6 euro l’ora, ndr.) sono molte delle volte a nero con tutto quello che comporta in termini assistenziali e previdenziali». Il rischio, dietro l’angolo, è che la ventata liberalizzatrice promessa dal governo Monti (secondo le richieste provenienti da Bruxelles) proceda alla totale cancellazione delle tariffe minime. «Di fatto non esistono già dalle lenzuolate dell’allora ministro Bersari – dice Bedrone – ma per ora vengono prese come parametro di riferimento nell’elaborazione dei compensi, anche se non hanno carattere vincolante. Eliminandole i giovani verrebbero privati anche di questa pseudo-protezione». Le società professionali – Al netto della polemica sulle tariffe minime forse la ricetta è l’avvio delle società professionali all’interno degli studi (non solo gli architetti, il tema interessa anche gli avvocati e i commercialisti). Dal 1 gennaio 2012 – come previsto dall’ultima legge di stabilità (183/2011) – i professionisti possono organizzarsi sotto forma societaria (indifferentemente come società di persone, di capitali o cooperative) con differenti ricadute sia sul piano formale (il fisco, per esempio), sia soprattutto su quello sostanziale. Il lavoro dipendente – «All’estero da anni hanno questa forma – analizza Bedrone – mentre da noi il problema è che gli studi sono formati in media da un paio di addetti e gli stipendi così bassi sono anche dettati da questo nanismo dimensionale». Ovvio che così si profila l’ingresso di capitali esterni a quelli dei soci/partner di studio e la conseguenza è un ripensamento della professione che da autonoma potrebbe trasformarsi in dipendente. «Meglio contrattualizzati in un grosso studio professionale magari con tutti i diritti del caso, che autonomi e appesi a pagamenti spesso dilatati nel tempo», dice Bedrone. Meglio sotto padrone che liberi, quindi. Soprattutto in tempi in cui il lavoro è così sulle nuvole da essere quasi aleatorio.

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