Intervista al ministro per la Cooperazione internazionale, Andrea Riccardi, dopo la recrudescenza del terrorismo anti-cristiano in Nigeria
Le diversità religiose in Africa sono un fattore più di distensione o di conflittualità nei paesi africani?
L’Africa subsahariana è sempre stata multireligiosa. Una caratteristica del continente è stata e rimane la tolleranza: anche nelle stesse famiglie vi sono appartenenti a fedi diverse senza che questo crei problema. Soltanto in Sudan e Nigeria vi sono state tensioni, dovute in gran parte alla presenza di un Islam influenzato dai paesi arabi dell’Africa Mediterranea o del Golfo. La guerra ormai ventennale in Somalia vede –ad esempio- musulmani scontrasi fra loro.
Per anni si è detto che nel Sudan il conflitto opponeva Nord musulmano a Sud cristiano. La realtà è più complessa e va considerata anche la questione etnica oltre che quella del controllo delle risorse naturali. Resta il fatto che le questioni religiose, quando sono interconnesse con i conflitti civili, possono essere facilmente manipolate per dividere. Se pensiamo per esempio ai fatti della Nigeria, dove si contano in questi ultimi tempi molte vittime cristiane, ci troviamo di fronte a uno scenario complesso in cui si intrecciano pulizia etnica, scontri di matrice religiosa, conflitti di potere e governo delle terre.
Le religioni possono avere anche un ruolo di distensione com’è avvenuto agli inizi degli anni Novanta quando, in molte e diverse parti d’Africa, fu chiesto alle Chiese di gestire le transizioni provocate dall’onda della democratizzazione.
Da alcuni anni stiamo assistendo a un aumento delle tensioni religiose nel continente. Quale pensa possa essere l’origine di questo crescendo?
Nell’Africa Occidentale assistiamo a un nuovo attivismo di matrice islamista che ha i suoi punti di forza in organizzazioni come Boko Haram in Nigeria o Aqmi (Al Qaeda nel Maghreb Islamico) nel Sahel. Tra le cause principali vi sono le conseguenze della guerra in Libia, che ha fatto emigrare verso sud combattenti mercenari e armi. Vi è poi la non risolta crisi algerina che da tempo ha contagiato il Sahel.
Gli eventi del nord del Mali mostrano come –a sud del Maghreb- si stia formando un’area fuori controllo caduta sotto l’influenza jihadista, una specie di Afghanistan vicino al Mediterraneo. Nel Nord islamizzato della Nigeria qualcuno soffia sul fuoco per costringere all’esodo la minoranza cristiana. Va detto anche che gli estremisti islamici sono un pericolo per i musulmani stessi, come si vede in Mali. Per queste ragioni dico da tempo che la nuova frontiera dell’Italia è il Sahel, dove dobbiamo essere presenti.
Quale può essere il contributo dell’Italia nel contrastare l’insorgere di fenomeni di rivalità religiosa nel continente africano?
La Primavera araba porta con sé pericoli ma anche opportunità. Queste ultime vanno messe a frutto e l’Italia deve fare la sua parte. Ciò che sta avvenendo in Tunisia fa ben sperare: la nascita di una democrazia musulmana nel rispetto dei diritti di tutti. Ho incontrato i leader tunisini e spero che la coalizione tra laici, islamisti e socialisti sia di buon auspicio. Certo, le difficoltà sono tante ma bisogna dar tempo al tempo. In Egitto la situazione è più critica ma ancora non siamo alla rottura. Tutto questo può avere un’influenza positiva sull’intero continente.
Nelle mie conversazioni con esponenti del mondo musulmano ho sempre affrontato il tema delle minoranze e della loro tutela; non esclusivamente per motivi confessionali ma perché si tratta di una garanzia per tutti. Difendere le minoranze e la convivenza tra diversi è garanzia di pluralismo che sta alla base di ogni democrazia.
L’Italia inoltre deve concentrare l’azione in alcune aree per noi strategiche. Una di queste è l’Africa Occidentale dove possiamo sostenere quei paesi come il Niger, il Burkina Faso, che svolgono un ruolo di ammortizzatore politico nelle ripetute crisi regionali, compresa quella attuale del Mali. Il rafforzamento delle relazioni ci offre un osservatorio importante nel cuore di un’area di conflitto. La stessa cosa si può dire per il Corno d’Africa dove l’Italia ha da svolgere un ruolo più incisivo a causa della nostra responsabilità storica. Credo sia necessario un nuovo impulso di presenza italiana a tutti i livelli: investire nella cooperazione, nello sviluppo sostenibile, negli investimenti, nella sicurezza, nel contrasto al traffico di esseri umani e di droga, nel sostegno alla governance.
L’Africa chiede partner veri, al suo livello, che non abbiano mire nascoste, che investano: credo che l’Italia abbia tutte queste caratteristiche. Infine dobbiamo investire in un clima di convivenza a casa nostra. Le religioni hanno una grande responsabilità nel processo d’integrazione e di condivisione dei valori fondanti e irrinunciabili della nostra democrazia. Per questo ho convocato una conferenza permanente dei leader religiosi per l’integrazione, sottolineando come proprio la religione può essere un fattore chiave per risolvere in senso positivo le sfide dell’integrazione.
Se in Italia ci sarà una migliore convivenza, questo sarà un segnale potente per i nostri vicini africani e darà loro la vera immagine del nostro paese.