Si scrive Germania, si legge Merkel. Da quando è cominciata la grande crisi del debito è stata lei, la cancelliera venuta dall’Est, il simbolo vivente della ricetta tedesca tutta fondata sulla disciplina di bilancio. Il Fiscal Compact è la sua creatura, è il Fiskalpakt che dovrebbe (avrebbe dovuto?) sancire insieme con una linea di politica economica anche l’egemonia di chi la persegue con più coerenza.
La cancelliera è molto popolare in patria, perché pare avere trovato una risposta a una paura ben radicata nella memoria storica dei tedeschi, quella dell’inflazione dell’inizio degli anni venti, quando ci volevano miliardi di marchi per comprare un chilo di pane. Ma pochi giorni fa, l’ex cancelliere Helmut Schmidt ha posto quella che sta diventando la Gretchenfrage (la domanda fondamentale da cui deriva tutto il resto, quella di Faust a Margherita: “Credi in Dio?”) dei prossimi mesi, quando, secondo le previsioni di tutti gli specialisti, lo stallo economico arriverà anche in Germania.
Distorsione
Perché i tedeschi sono ossessionati dal fantasma dell’inflazione e non da quello della recessione? Eppure, “chi crede che l’Europa possa essere risanata solo grazie ai tagli alla spesa – ha detto l’ex cancelliere novantatreenne – dovrebbe studiare le nefaste ripercussioni della politica deflazionistica perseguita da Heinrich Brüning nel 1930-1932 che provocò la depressione e un’insostenibile disoccupazione, avviando di fatto il declino della prima democrazia tedesca. Oggi come ieri, il prezzo del nostro fallimento politico ed economico può essere altissimo”.
Questa distorsione c’è, non c’è dubbio. E non da oggi, perché ha ispirato l’impostazione che l’élite della Repubblica federale volle imporre, al tempo della nascita dell’euro, all’istituto della Banca centrale europea (Bce) che doveva, sul modello della Bundesbank, essere poco più che un cane da guardia dell’inflazione, ruolo che corrisponde sostanzialmente con l’altra Grande Paura dell’opinione pubblica in Germania: quella che ogni cedimento ai “paesi della Dolce Vita” (l’espressione ha il copyright della Csu) finisca per trascinare anche la virtuosa Repubblica federale nel vortice delle spese incontrollabili. E i limiti d’azione della Bce, continuamente ribaditi da Berlino insieme con le durezze necessarie della austerity policy, sono oggi uno dei problemi principali della crisi dell’euro. Forse addirittura il più forte.
Si sbaglierebbe però a pensare che questa sintonia della strategia di Frau Merkel con una certa profondità del sentire tedesco passi senza contrasti e non venga erosa dagli sviluppi della crisi. Si scrive Germania, si legge Merkel: l’osservazione è vera se si considera il problema dall’esterno, da casa nostra. Lo è molto meno se lo si guarda dall’interno. Il governo della cancelliera è tutt’altro che solido e capace di imporre il proprio pensiero unico economico. La crisi dei liberali, i più accesi sostenitori della austerità über alles, sta togliendo alla coalizione di centro-destra la maggioranza necessaria a confermarsi nelle prossime elezioni.
Ascesa rosso-verde
Secondo gli ultimi sondaggi, se si votasse domenica prossima (anziché nell’autunno del 2013) a Berlino si formerebbe un governo rosso-verde. E tanto la Spd che i Verdi hanno concezioni e, quel che più conta, programmi del tutto alternativi alla politica del rigore-punto-e-basta. Oltretutto, non bisognerà aspettare le elezioni dell’anno prossimo perché questa linea alternativa abbia le chances per affermarsi.
In virtù di una sentenza della Corte di Karlsruhe, l’equivalente della nostra Consulta, per far approvare dal Bundestag e dal Bundesrat il Fiskalpakt il governo avrà bisogno di una maggioranza qualificata. Dovrà, cioè, avere i voti dell’opposizione e l’opposizione ha posto le sue condizioni. Tra queste non ci sono gli eurobond, ai quali la Spd resta fedele (ma sa che Frau Merkel e Herr Schäuble non li accetterebbero mai), ma un corposo pacchetto di misure volte a contrastare la propensione alle scorribande della finanza speculativa e a promuovere l’occupazione con interventi e investimenti pubblici.
La battaglia, insomma, è già in atto. E questo spiega, fra l’altro, i continui rinvii della sessione parlamentare di ratifica del patto. Doveva essere convocata per il 25 maggio, poi s’è posto come “termine ultimo” il 15 giugno, in modo che l’accordo fosse operativo per l’entrata in vigore dell’European Stability Mechanism (Esm)che sostituirà da luglio il vecchio fondo salva-stati Efsf. Ora sulla data regna la confusione, e d’altra parte tutto il processo di ratifica da parte degli stati viaggia nei dubbi. Per quanto si capisce, lo stesso governo italiano parrebbe orientato ad andare all’autunno.
La soddisfazione di Berlino per la “grande vittoria” sul Fiscal compact, varato in pompa magna solo tre mesi fa, sta affondando ora nell’incertezza. Almeno dalla vittoria di François Hollande in poi, le riserve e le aperte opposizioni sono in crescita e i recenti sviluppi della situazione economica, con i primi segnali di una recessione che secondo gli analisti non potrà non arrivare anche qui, rafforzano anche in Germania l’opinione di chi chiede radicali cambi di rotta.
Piano alternativo
È del tutto ovvio che la questione va ben al di là del destino parlamentare, pure importante ed emblematico, del Fiskalpakt. Il piano alternativo “per l’uscita dalla crisi” che la Spd ha presentato qualche settimana fa con lo schieramento plateale dei suoi massimi leader, il presidente del partito Sigmar Gabriel, l’ex vicecancelliere ed ex ministro degli Esteri Frank-Walter Steinmeier e l’ex ministro delle Finanze della grosse Koalition Peer Steinbrück, ha il respiro lungo di un programma di governo.
Pur riconoscendo la necessità di tenere rigorosamente sotto controllo il debito, indica una strategia del tutto alternativa all’austerity policy di Frau Merkel. Prevede un programma europeo urgente contro la disoccupazione giovanile, con investimenti pubblici adeguati e favorendo la mobilità intereuropea; misure di controllo e regolamentazione dei mercati finanziari, dall’introduzione dell’imposta sulle transazioni alla separazione netta tra banche commerciali e banche d’investimento, un ente di controllo comune e un’agenzia di rating europea.
Ci sono poi indicazioni precise sulle scelte industriali che gli stati dovrebbero adottare per la rapida attuazione di un piano di crescita e occupazione: promozione dell’innovazione e della ricerca; promozione del lavoro nel settore del rinnovamento ecologico e in grandi progetti per la modernizzazione delle reti infrastrutturali transeuropee.
I fondi per questi investimenti massicci potrebbero essere reperiti utilizzando in modo più efficace gli attuali fondi europei, rilanciando la Banca europea per gli investimenti, con i proventi (si calcola intorno ai 60 miliardi l’anno) della tassa sulle transazioni e con l’introduzione di prestiti obbligazionari europei. Ma, soprattutto, andrebbero introdotte forme di condivisione del debito, dagli eurobond a fondi di garanzie comuni per evitare i fallimenti delle banche.
È, per così dire, la voce dell’”altra Germania”. Della Germania con cui l’Europa si troverà a trattare se, come è possibile, Spd e Verdi vinceranno le elezioni dell’anno prossimo.
di Paolo Soldini, giornalista, già corrispondente da Bruxelles e dalla Germania