L’immagine che la Cina proietta di sé all’esterno è sovente quella di un monolite statico e intransigente. In realtà, nel paese, così come all’interno del partito cinese, è in corso un serio dibattito politico sul ruolo della Cina nel nuovo ordine globale. Il concetto di global governance è estraneo alla mentalità cinese, tuttora legata alla tradizionale concezione gerarchica del “governo” inteso come potere di ultima istanza, e anche per questo, fino ad oggi, ha suscitato varie resistenze nell’intellighenzia nazionale.
Un recente intervento a ThinkINChina del professor Pang Zhongyin, docente di relazioni internazionali presso il Centre for the Study of Global Governance della Renmin University di Pechino, ha contribuito a far luce sull’essenza di questo dibattito e sulle fondamentali questioni che esso pone per il governo cinese.
Ripensare la non-interferenza
Secondo Pang la politica estera cinese sta attraversando una fase di transizione epocale: se fino a poco tempo fa Pechino rifiutava politicamente e ideologicamente l’idea di governance mondiale, suggerita o imposta dall’Occidente, adesso ne ha pragmaticamente accettato l’indispensabilità e opera attivamente per ritagliarsi un ruolo “con caratteristiche cinesi” all’interno della riflessione globale in corso sul tema.
La leadership cinese è chiamata, in particolare, a ripensare, il proprio atteggiamento rispetto al principio di non interferenza/non intervento, tradizionale cardine della politica estera della Repubblica popolare cinese (Rpc) sin dalla sua fondazione. Fino ad oggi la difesa di tale principio ha avuto tre scopi: preservare la sovranità cinese da intromissioni esterne; mantenere l’affinità politica con i paesi in via di sviluppo (retaggio dell’alleanza anti-colonialista e anti-imperialista); evitare qualunque coinvolgimento in crisi internazionali che non tocchino direttamente l’interesse nazionale cinese.
Già dalla fine della Guerra fredda la Cina ha accresciuto progressivamente la sua partecipazione alle missioni di peacekeeping sotto mandato Onu e, pur non avendo ancora accolto in toto la dottrina della Responsibility to protect, ne ha in parte condiviso lo spirito, puntando a un equilibrio tra le istanze di intervento umanitario e i principi di sovranità nazionale e non-interferenza.
Secondo Pang è necessario che Pechino elabori una formula di compromesso tra vecchi e nuovi principi per poter esercitare quella che definisce “conditional interference”, un riflesso dell’idea di creative involvement proposta recentemente da Wang Yizhou. “Per la Cina è finita l’era dell’indipendenza, dell’autonomia e dell’autosufficienza nella loro accezione tradizionale”, ha affermato Pang: la comunità internazionale ha bisogno della cooperazione e del contributo attivo di Pechino.
Che profili avrà questo nuovo attivismo cinese in campo internazionale? La Cina sarà una forza riformista, una potenza revisionista, o un baluardo dello status quo? Fino a che punto sarà disposta ad allontanarsi dal monito di Deng Xiaoping – “si prenda tempo e si mantenga un profilo basso”?
Libia e Siria
I casi libico e siriano hanno posto alla leadership cinese questi interrogativi con drammatica urgenza. Se il caso libico sembra aver colto di sorpresa i vertici del paese – apparentemente inconsapevoli che l’astensione sulla risoluzione Onu 1973 avrebbe dato il via libera a un’azione militare volta a indurre con la forza un cambiamento di regime, il veto sul caso siriano, pur palesando una ritrovata sicurezza, appare più una reazione all’intervento in Libia che una reale scelta strategica di politica estera.
Sebbene Pechino non aspiri a creare un nuovo sistema di global governance, sono in molti in Cina ad avere dubbi su una serie di principi che si vogliono rappresentativi della “buona governace”, come, ad esempio, il libero mercato, la tutela dei diritti umani, la prassi democratica, e la garanzia della trasparenza negli atti pubblici. Starà quindi al Partito trovare un compromesso tra concessioni, ancorché parziali, alla pressure diplomacy occidentale e al principio della non interferenza, che ancora si considera intimamente legato all’interesse nazionale.
Secondo Pang una Cina globale dovrà necessariamente essere più attiva e partecipe: l’auspicio è che il cambio di leadership a Pechino in autunno apra la strada a una dirigenza capace di raccogliere le nuove sfide dell’integrazione nell’ordine internazionale. L’Occidente può efficacemente assecondare questo atteggiamento più aperto, a patto che, di fronte al maggior dinamismo cinese, eviti di cadere nella trappola retorica del “China torea”.
Enrico Fardella è Bairen Jihua research fellow, Peking University; fellow, Science and Technology Program China, Commissione europea. Chiara Radini è visiting student of international relations, Peking University. Entrambi sono fra gli animatori di ThinkINChina, una “open academic-café community” attiva a Pechino, luogo di dibattito tra giovani ricercatori e professionisti di varia provenienza impegnati nello studio della Cina contemporanea.