Lo strano caso dei Marò italiani in India

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Sulla vicenda dei nostri due fucilieri di Marina catturati e detenuti dalle autorità indiane del Kerala, in India, ritengo ci siano alcuni aspetti da approfondire, sia dal punto di vista giuridico che da quello più squisitamente politico. Aspetti che non hanno certo un carattere puramente accademico, ma che devono, a mio parere, essere tenuti in debita considerazione per calibrare le azioni da porre in essere per risolvere positivamente la questione.

Dubbia immunità
Diamo per scontato l’argomento, assolutamente inattaccabile, che l’evento è accaduto al di fuori della fascia delle dodici miglia che l’India, come la stragrande maggioranza dei paesi del mondo, riconosce come ‘acque territoriali’ e che pertanto, a tutti gli effetti, la nave battente bandiera italiana era in quel momento in ‘territorio nazionale’. Un altro degli argomenti utilizzati per affermare la giurisdizione italiana sull’evento è stato che i due militari, in quanto agenti dello stato italiano nell’effettuazione di una missione – peraltro autorizzata in termini generali dalle Nazioni Unite – sono sottratti a qualsiasi giurisdizione che non sia quella dello Stato di bandiera.

Qui nascono le prime perplessità. Anche se tale principio può, infatti, essere sostenuto in astratto, la prassi vigente, almeno dalla fine del secondo conflitto mondiale, dice esattamente il contrario. Al punto che per garantire il ‘diritto di bandiera’ nell’ambito stesso dell’Alleanza Atlantica, è stato necessario sottoscrivere uno specifico accordo, la Convenzione di Londra del 1951, dove è definito nei dettagli lo ‘Stato delle Forze’.

È altresì da notare che, in forza di tale accordo, il diritto di bandiera può essere fatto valere solo per le attività militari compiute nello specifico quadro della Nato, tant’è che nel caso Cermis (quando, nel febbraio 1998, un aereo militare statunitense determinò la morte di 20 persone tranciando i cavi di una funivia in Val di Fiemme, ndr.) uno degli argomenti sostenuti da chi voleva affermare la giurisdizione italiana era che il volo tragicamente conclusosi non era stato effettuato nell’ambito di un programma addestrativo dell’Alleanza, bensì rispondesse ad esigenze nazionali Usa, il che avrebbe fatto venir meno la copertura giuridica garantita dallo Status of Forces Agreement.

Anche nell’avvio di tutte le operazioni di pace condotte negli anni novanta ed in seguito, il principio della necessità di uno specifico accordo a garanzia degli operatori militari, o assimilati, è sempre stato dato per scontato: gli accordi di Kumanovo, che hanno consentito l’ingresso delle truppe Nato in Kosovo nel 1999, lo prevedevano in modo esplicito, ed ancora, esempio recentissimo, la Nato ha chiuso la missione di addestramento in Iraq (Nato Training Mission – Iraq), proprio perché non è stato possibile raggiungere con le autorità irachene un soddisfacente accordo sullo stato delle forze, che sottraesse i militari dei paesi dell’Alleanza all’autorità giuridica dell’Iraq.

Ebbene, non esiste ancora tra India e Italia, o tra India e la Nato, né mi risulta che sia in corso di negoziazione, un accordo di questo genere. Pertanto appare sostanzialmente privo di fondamento sostenere un principio giuridico che, sebbene non del tutto infondato in astratto, non ha mai trovato, almeno negli ultimi decenni, pratico riconoscimento ed attuazione, anzi al contrario, è di fatto negato nella prassi.

Profilo costituzionale
Una seconda considerazione ha a che fare con aspetti costituzionali. Un primo dato è che in India vige ancora la pena di morte, che invece è rigettata in modo inequivocabile dal nostro ordinamento giuridico e addirittura dalla nostra Costituzione.

La stessa Corte Costituzionale, con una sentenza del 1996, si espresse con grande determinazione sul ‘caso Venezia’. Venezia era un cittadino italiano, accusato di omicidio di primo grado da una corte della Florida, che ne aveva chiesto l’estradizione; la questione fu oggetto di ampio dibattito a tutti i livelli, anche parlamentare, e venne alla fine sottoposta al giudizio della Corte Costituzionale, che si espresse negando la possibilità che venisse concessa l’estradizione verso un paese dove vigeva la pena di morte, in quanto in contrasto con i nostri principi costituzionali.

Il caso ha creato un precedente che ha informato tutti i comportamenti delle istituzioni italiane: in campo militare, ad esempio, i nostri contingenti impegnati nelle varie missioni internazionali, in paesi dove la pena di morte non è stata formalmente abolita, sono molto attenti nella gestione degli eventuali prigionieri catturati: a tal riguardo, le pattuglie sono rigorosamente miste e gli eventuali arresti sono effettuati non dal nostro personale, ma da personale locale, in modo che la consegna alle autorità giudiziarie avvenga senza che ci sia formalmente un coinvolgimento dei nostri soldati.

In una recentissima intervista, i due fucilieri attualmente trattenuti in Kerala, ad una precisa domanda su chi avesse ordinato loro di scendere, hanno risposto: “Siamo scesi dalla nave perché ci è stato detto di farlo”, e al giornalista che insisteva per sapere chi fosse stato, la risposta è stata “Non rispondo”. Ora se questo qualcuno è un’autorità nazionale, questa si è resa responsabile di una grave violazione dei nostri principi costituzionali, che dovrà essere adeguatamente valutata.

Prudenza e chiarezza
Un terzo aspetto ha carattere squisitamente politico: il ministro degli esteri Giulio Terzi ha dichiarato in sede parlamentare che l’ingresso del mercantile nelle acque territoriali indiane è stato ottenuto con “un sotterfugio della polizia locale” e il ministro della difesa Giampaolo Di Paola ha affermato, di fronte al Copasir, che le autorità indiane hanno attirato il mercantile Enrica Lexie nelle loro acque territoriali e nel porto di Kochi con l’inganno.

Passi se queste considerazioni vengono fatte da addetti ai lavori in ambito giornalistico. Ma quando sono due esponenti del governo ad esprimersi in questo modo in ambiente istituzionale parlamentare, non si può che essere d’accordo con l’ex ministro della difesa Arturo Parisi, che così reagisce: “Non si può, come ha fatto il ministro, riconoscere e denunciare l’arresto dei nostri fucilieri di marina come un vero e proprio sequestro di Stato operato grazie ad un raggiro, senza che da questo ne derivino atti conseguenti”, che devono andare bene al di là di una convocazione dell’ambasciatore del paese in questione.

È chiaro a tutti che in questa fase occorre agire con la massima prudenza e calibrare con attenzione parole ed atti. Ma è anche altrettanto chiaro che l’efficacia di quanto sarà possibile porre in atto dipenderà dalla chiarezza delle proprie argomentazioni, da basare su un solido quadro sia giuridico che politico.

 

Vincenzo Camporini, già Capo di Stato Maggiore della Difesa, è vicepresidente dello Iai.

 

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