Ezio Tarantelli, economista e giuslavorista ucciso dalle br nel 1985.
Negli ultimi giorni mi è sembrato di andare indietro di trent’anni: ho ripensato alla scala mobile, alla barricata eretta contro la ragionevolezza economica che è costata la vita a un amico, una vita intelligente, preziosa per il Paese.
Ezio Tarantelli sarebbe stato felice se avesse potuto vivere fino al ’93, quando Ciampi chiude quel capitolo ventennale della storia patria, ma la sua vita si ferma il 27 marzo 1985, quando esce da lezione di corsa perché lo aspettano Tiziano Treu e Piero Craveri per scrivere il manifesto del no al referendum contro l’abolizione della scala mobile.
Con dolore ho visto l’assetto di guerra dispiegato da Cgil e dal Pd, Di Pietro dichiarare «sarà il nostro Vietnam», la carrellata dei talk show, dove molti non competenti di questa materia filosofeggiavano sul decadimento dell’uomo ridotto a insieme di competenze. Mi è venuto in mente quello che c’era sul parabrezza della Citroën rossa di Ezio, la Risoluzione n. 20, 70 pagine di delirio puro dove si leggeva «il salario si difende con il fucile». Come abbiamo potuto non imparare la moderazione in un Paese dove ci sono sempre menti deboli vittime dell’essere più a sinistra, capaci di prendere sul serio l’estremismo verbale, l’esagerazione, la violenza?
Ezio avrebbe voluto un sindacato unitario un po’ tedesco che trattava con coscienza e sobrietà, un sindacato forte e partecipativo. La sua intelligenza impertinente irritava alcuni quando spiegava la realtà con modelli astratti ma tanto reali da costargli la vita. Era una piccola idea geniale e pragmatica la sua. L’inflazione deve essere predeterminata, se non fermi la rincorsa della determinazione dei salari con le aspettative, l’inflazione si autoalimenterà: aveva combattuto contro gli automatismi per dare al sindacato spazi di «agibilità negoziale», sottratti alle dinamiche automatiche del costo del lavoro.
Oggi, nella reazione alla riforma troviamo i vecchi ingredienti della reazione rabbiosa e vendicativa, della fuga nell’irrazionalità e nel populismo. Avremmo bisogno del contributo dell’intelligenza della sinistra, di lavorare sui punti deboli, al di là del simbolo numero 18. Per la prima volta c’è una riforma globale del mercato dopo trent’anni di contributi importanti ma parziali. L’articolo 18 non si poteva nemmeno pronunciare e questo ha distorto il complessivo funzionamento del mercato. È vero che non tocca tutti i lavoratori, ma il suo impatto sulle imprese e sul mercato è enorme. Per questo le imprese hanno accettato di pagare di più ed essere vincolate per avere più certezza sui costi delle uscite.
Questa riforma ha aspetti tecnici che vanno studiati e perfezionati. La riforma mette al primo posto l’apprendistato e lo aggancia all’assunzione, lascia molte forme di flessibilità che per essere buone vanno monitorate. Il momento è drammatico, in Italia, c’è bisogno di tutta la flessibilità alle imprese e si vuole mettere un alt deciso all’abuso del contratto atipico. Bisogna differenziare l’aggravio posto sulle imprese che usano lavoro a tempo determinato: un pezzo non piccolo dell’economia lavora a tempo determinato per sua natura, agricoltura, terziario, turismo. Giusto aumentare i contributi che vadano a un fondo permanente, ma si deve lavorare di distinzioni, non sacrificare occupazione e rischiare il ricorso al sommerso.
Sulle politiche attive c’è molto da suggerire. L’incontro domanda offerta è uno snodo vitale del mercato dove il pubblico colloca solo il 3% dell’occupazione, non esiste un centro nazionale e le agenzie funzionano in 5 regioni.
Sugli ammortizzatori, benvenuto Aspi (Associazione sociale per l’impiego) che deve essere declinato nelle fattispecie contributive: prima che diventi il sussidio unico dobbiamo passare la selva oscura dei sussidi di varia natura durata ed entità che dovrà essere diboscata.
Sull’articolo 18 certamente le imprese temono il reintegro ma soprattutto la lunghezza, l’incertezza e la penale altissima che oggi dipende dalla lunghezza del processo. Sanno bene che non è tanto la reintegrazione a cui mirano i dipendenti nella maggioranza dei casi quanto a un indennizzo più alto possibile, la reintegrazione finisce per rialzare il prezzo di una transazione resa opaca dalla lunghezza dei tempi e dalla roulette russa geografica e individuale. La nuova normativa risolve e mette una multa molto alta, un deterrente di massimo 27 mesi, che non credo abbia eguali in Europa, toglie l’incentivo a puntare su un indennizzo gonfiato dalla lunghezza del processo. Nel frattempo, il dipendente non vive d’aria, quindi immaginiamo che lavorerà in nero o si farà aiutare dalla famiglia.
La Germania piace? Certo l’applicazione della legge è più trasparente e conciliatoria, simile alla riforma del nostro governo eccetto in un caso: il lavoratore sta al suo posto e lavora fino alla fine dell’eventuale processo che avviene solo nel 6% dei casi, dopo che la mediazione ha risolto la maggioranza dei casi, dove l’impresa offre subito anche la sua proposta di buonuscita, dove la natura partecipativa è il segreto che produce una pratica buona e non conflittuale.
Gli effetti potenziali sul lavoro dei giudici vanno studiati e affrontati con un atteggiamento che spero sia quello della foto di Cernobbio dove Susanna Camusso ride di gusto alle irresistibili battute di Mario Monti.
Alessandra Del Boca, Corriere Della Sera