La questione antropologica nella Dottrina Sociale della Chiesa

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Relazione del Cardinal Angelo Bagnasco, Presidente della CEI, svolta alla Pontificia Università della Santa Croce il 7 marzo 2012, in occasione dell’incontro con tutti i parlamentari italiani: «I cristiani con responsabilità pubbliche non possono mettere la fede tra parentesi»

 

La questione antropologica nella Dottrina Sociale della Chiesa

Introduzione

Il contesto nazionale e globale in cui ci collochiamo è  per molti aspetti essere definito di crisi, e questa  non può dirsi circoscritta al piano economico, ma raggiunge vari livelli della nostra società e del mondo. Lo scenario, dunque, richiede una forte presa di coscienza delle sfide che ci sono poste davanti, oltre che una riflessione attenta, fondata su una nuova progettualità e su uno spirito di vera collaborazione. Nell’attuale congiuntura economica, sociale e culturale, siamo chiamati a riflettere con attenzione sugli obiettivi che intendiamo realizzare e sulla gerarchia di valori con cui attuare le scelte più importanti. Infatti, fuori da una visione d’insieme non esistono soluzioni.

 

La dignità dell’uomo come cardine della Dottrina Sociale della Chiesa

Con la sua Dottrina Sociale, la Chiesa dà il suo contributo senza la pretesa di offrire soluzioni tecniche,[1] ma presentando le linee guida per una corretta concezione della società e dell’uomo. È un insegnamento rivolto non unicamente ai credenti, ma a tutti gli uomini, perché basato non solo sulle parole del Vangelo, ma sulla ragione comune a ogni essere umano. A partire dall’enciclica Rerum Novarum di Leone XIII, che nel 1891 interveniva in difesa della classe operaia oppressa per le ingiuste condizioni di lavoro, e nelle encicliche che l’hanno ripresa e attualizzata,la Dottrina Sociale offre una riflessione sulla società, al cui centro vede la persona umana. Gli insegnamenti che essa propone si riassumono in un unico principio, quello della dignità dell’uomo, che della società rappresenta il vertice e il valore più alto.

Senza l’uomo ogni realtà del mondo, infatti, sarebbe un ammasso di materia di varia forma, ma nulla avrebbe un nome o sarebbe dotato di un senso specifico. È solo in relazione all’uomo che le diverse realtà acquistano il loro pieno significato. La tutela dell’ambiente, per esempio, non ha come obiettivo la mera conservazione della natura, ma è il tentativo di porla al servizio dell’uomo, nella ricerca di un’armonia tra l’umanità e il mondo circostante. La stessa dimensione economica non rappresenta un valore se non in quanto posta a servizio dell’uomo: non gioverebbe l’ incremento della ricchezza complessiva che non venisse a beneficio delle singole persone, o un progresso economico che fosse a favore di alcuni e a danno dei più.[2]

La dignità dell’uomo costituisce un principio unitario, perché in grado di far convergere verso una medesima finalità interventi in ambiti diversi e apparentemente indipendenti tra loro. È un principio concreto in quanto deve essere il criterio orientativo per le decisioni da assumere in seno alla società, il cui fine è la promozione del bene di ogni individuo. Lo sviluppo sarà autentico solo se avrà l’uomo come riferimento primario, e se dell’uomo terrà presenti tutte le dimensioni costitutive, senza trascurarne alcuna.[3] Il modo in cui una società viene a configurarsi dipende in larga misura dalla concezione antropologica che si è assunta, anche se talvolta solo in modo implicito. In altre parole, è sempre a partire da una certa idea di uomo che si dà forma a un determinato tipo di società invece che a un altro.[4] La riflessione sull’uomo è dunque imprescindibile, e per questola Dottrina Sociale della Chiesa la esprime in una compiuta antropologia con la quale indica gli elementi fondamentali della persona umana, che devono essere riconosciuti, promossi e tutelati.

 

Trascendenza e relazionalità umane

Dell’uomo va anzitutto ricordata la dimensione trascendente, che lo rende qualitativamente diverso dal mondo in cui vive. Una delle insidie per la nostra società è data da una cultura che appiattisce l’uomo nella sola sfera materiale. Ciò lo induce a trascurare il suo innato bisogno di cercare la verità e di volgersi a Dio, nella ricerca del senso più profondo della sua esistenza. Un certo consumismo, che porta al desiderio di soddisfazioni meramente sensibili, finisce per ridurre l’uomo stesso a un oggetto, e a considerare i beni materiali come l’unica cosa veramente importante.

Al contrario, la persona trascende l’ambito materiale, e può realizzare le sue più intime aspirazioni solo nella valorizzazione della sua interiorità e spiritualità. La storia attesta che l’esperienza religiosa costituisce un elemento imprescindibile della vita dell’uomo e che deve avere un suo spazio all’interno della società, senza essere marginalizzata o resa irrilevante. Questo avviene quando la propria fede viene celata per la presunta necessità di non rendere manifeste le proprie convinzioni religiose. L’esperienza religiosa, invece, va considerata come un elemento indispensabile anche nel contesto di uno Stato laico, perché rappresenta il segno più alto della libertà dell’uomo[5] e lo Stato  lo deve difendere e promuovere. Se al contrario esso favorisse forme di ateismo pratico, svuoterebbe l’umanità delle persone sottraendo ai suoi cittadini la forza morale e spirituale indispensabile per impegnarsi nello sviluppo umano integrale[6]. Ciò accade quando non sono rispettati i giorni festivi, quando viene sfavorita l’edificazione di luoghi di culto o  interdetta l’esposizione di simboli religiosi.

L’oblio della dimensione trascendente di solito si affianca ad una concezione individualistica della vita umana. Un certo individualismo, che attraversa la modernità, pensa alla relazione con l’altro come a un ostacolo alla propria realizzazione, o come a qualcosa di puramente accidentale. Da qui nasce l’idea di società che fa da sfondo ad alcune concezioni contrattualiste, per le quali l’uomo è un essere costitutivamente individuale, spinto ad associarsi a causa di una mera convenienza. L’individualismo poi si traduce facilmente in disinteresse per la cosa pubblica, fino a forme di disimpegno o di ingiustizia, ed ispira  una certa concezione della libertà comunemente accettata e diffusa in gran parte attraverso i mass media. Questi veicolano spesso un’idea riduttiva di persona, che troverebbe la sua felicità nel possesso o nel piacere sensibile; anche i messaggi pubblicitari si fanno spesso portatori di una logica superficiale e di un uso sconsiderato del denaro, proponendo modelli spesso irraggiungibili ai più e creando per questo illusioni e delusioni. Una libertà concepita in tal modo non si lascia coinvolgere in un progetto comune, ma fatica a impegnarsi per il bene altrui; è tentata di improntare le relazioni ad una logica utilitaristica, centrata sul proprio tornaconto, e si espone con più facilità ad essere manipolata. Ne vediamo i frutti nella piaga dell’evasione fiscale e nell’impiego a fini personali di beni pubblici; nella corruzione e nell’indifferenza verso i poveri. In sintesi, l’individualismo genera  solitudine.

 

Il bene comune come fine ultimo del vivere sociale

Al bene dell’uomo, che non può prescindere dalla sua relazionalità e trascendenza, ogni ambito della società deve concorrere come al suo fine primario. Si tratta non solamente del bene di tutto l’uomo, ma anche di quello di tutti gli uomini, perché solo così si potrà realizzare un vero sviluppo: l’obiettivo del vivere sociale è infatti il bene comune, che è «il bene di noi-tutti».[7] Non è semplicemente il bene dei singoli, ma di questi in quanto parte di un corpo sociale; e non è solo il bene della società nel suo insieme, ma di questa in quanto costituita da singoli individui, nessuno dei quali può essere dimenticato o considerato una sorta di scarto. Il concetto di bene comune tiene unite queste due polarità senza che si possano mai separare: l’uomo è sempre pensato nella sua relazione con la società e questa come composta di singoli individui. Ciò permette di evitare gli estremi di un collettivismo che subordina il bene delle singole persone a quello della società, e di un individualismo che trascura la responsabilità di ciascuno per la collettività. Nella famiglia troviamo una esemplificazione del bene comune: in essa il bene della famiglia nel suo insieme non prescinde mai da quello dei suoi componenti, né il bene di un singolo membro può realizzarsi a scapito degli altri.[8]

Il concetto di bene comune delegittima una concezione privatistica dei diritti che, pur essendo formulati per esprimere l’uguale dignità di ogni persona, vengono frequentemente invocati per rivendicare beni auspicati per se stessi, nell’oblio dei doveri verso gli altri e nella moltiplicazione arbitraria dei diritti stessi. Così concepiti, i diritti falliscono il loro obiettivo di difendere e promuovere le dimensioni fondamentali della persona umana, rivelandosi di fatto insostenibili.

Di fondamentale importanza è la dedizione di tutti i cittadini al bene comune, e in particolare il loro impegno nell’azione politica. Tale forma di servizio è espressione di carità e, se compiuta con rettitudine, può contrastare la tendenza oggi diffusa al disinteresse per la politica, sentita da molti come una sovrastruttura lontana e non rappresentativa mentre invece è insostituibile.

Il ruolo della politica si trova oggi fortemente condizionato, nonché indebolito, da una assolutizzazione della moderna concezione della tecnologia, per la quale «lo sviluppo tecnologico può indurre l’idea dell’autosufficienza della tecnica stessa quando l’uomo, interrogandosi solo sul come, non considera i tanti perché dai quali è spinto ad agire».[9] I risultati della tecnica vanno riconosciuti e apprezzati, ma non assolutizzati quasi fossero capaci di dare risposta agli interrogativi più profondi dell’uomo. Parlando al Parlamento tedesco, nel settembre dello scorso anno, Benedetto XVI affermava che «dove vige il dominio esclusivo della ragione positivista – e ciò è in gran parte il caso della nostra coscienza pubblica – le fonti classiche di conoscenza dell’ethos e del diritto sono messe fuori gioco».[10] Non vi è più esperienza politica qualora i fini dell’azione umana siano già determinati a priori dalla scienza. Ciò porta all’estremo di una tecnologia che prende il sopravvento sull’uomo, fino a renderlo incapace di orientare le proprie scelte tramite il dibattito politico e il discernimento morale, entrambi schiacciati perché è eliminato il mondo dei fini per fare posto a quello dei mezzi tecnici. Per questa ragione il Papa aggiungeva che «questa è una situazione drammatica che interessa tutti e su cui è necessaria una discussione pubblica».[11]

Un forte limite all’azione politica dello Stato si trova anche nella predominanza dell’economico sul politico, tanto che questo si trova spesso a dover tacere davanti allo strapotere del capitalismo finanziario, che arriva a determinare prepotentemente le scelte sia economiche che politiche. In questo modo, il processo democratico e lo stesso capitalismo vengono svuotati di senso, e l’umano è ridotto a una questione di calcolo.

 

La questione demografica e il rispetto per la vita

Le considerazioni a cui ci ha spinti il riconoscimento dell’uomo quale centro della società, ci portano a riflettere su alcune questioni cruciali che interessano il nostro Paese. La prima è quella del rispetto e dell’accoglienza della vita. La vita di ogni essere umano costituisce un valore in sé, ed è preziosa anche quando non rappresenti una risorsa economica o sia toccata dalla sofferenza o dalla malattia. Per questo deve sempre essere difesa ed è disumano ritenere che non sia degna di essere vissuta. Oltre ad avere effetti distruttivi per gli individui a cui si impedisce di venire alla luce, la soppressione della vita ha dei riflessi su tutto il corpo sociale. «Una società che si avvia verso la negazione e la soppressione della vita, finisce per non trovare più le motivazioni e le energie necessarie per adoperarsi a servizio del vero bene dell’uomo».[12] Il mancato rispetto della vita e il disprezzo delle situazioni di sofferenza o inefficienza rendono sempre più difficile la valorizzazione e lo stesso riconoscimento della dignità di ogni individuo.[13] Ciò ha rilevanti conseguenze sulla società, in cui è possibile creare condizioni di giustizia solo a partire dal rispetto dei beni fondamentali, il primo dei quali è la vita stessa.

Se non si preoccupa di tutelare anzitutto i più deboli, lo stesso ordinamento democratico viene scosso nelle sue radici e vede messi in discussione i suoi stessi presupposti.[14] La democrazia, come sistema che riconosce e apprezza il contributo di ogni cittadino, perché uguale in dignità a tutti gli altri, si sottomette così al potere del più forte o alle decisioni arbitrarie della maggioranza.[15] Bisogna dire pubblicamente che il criterio della messa ai voti delle decisioni da assumere trova un limite nei valori fondamentali della persona umana, che vanno sempre rispettati.

Sempre il legislatore e i singoli cittadini devono agire secondo coscienza; tale criterio però non può essere inteso nel senso che tutto ciò che proviene dalla decisione personale è di per sé giusto, né può essere invocato qualora si tratti della dignità delle persone. In questo caso quelli che sono in gioco sono valori non negoziabili, perché sempre da difendere e promuovere.

Il riconoscimento del valore della vita umana deve manifestarsi anche nella generazione della vita. «L’apertura alla vita, infatti, è al centro del vero sviluppo»[16] e una cultura che sappia apprezzare il dono dei figli e accoglierli come una benedizione sarà più capace di volgersi al futuro, guardando ad esso con fiducia. Il nostro Paese, al contrario, vive un preoccupante calo delle nascite, che mi ha spinto a parlare di  «suicidio demografico»:[17] è il suicidio di una Nazione che non guarda avanti perché ha paura del futuro; che vede aumentare rapidamente l’età media dei suoi cittadini, creando problemi di ordine economico e sociale a medio e lungo termine.

Un diverso approccio alla questione demografica richiede che la famiglia, che è il luogo dove i figli sono naturalmente generati, accolti ed educati, sia promossa, difesa e sostenuta. Le politiche familiari dovranno rispondere a questa problematica, assicurando ai genitori un appoggio concreto, a partire dalla presenza più consistente di strutture e servizi che li sostengano nella crescita dei figli.

 

L’immigrazione e l’accoglienza dell’altro

Un’altra questione sociale che tocca in modo profondo il tema della dignità dell’uomo è quella dell’immigrazione, che negli ultimi anni ha assunto proporzioni consistenti e talora preoccupanti. Il fenomeno necessita di essere gestito e regolato sapientemente, ma chiede di non essere ideologizzato o portato agli estremi del disprezzo dell’altro. Ciò è vero in particolare nel caso si tratti di persone in uno stato di radicale indigenza o vittime di persecuzioni politiche. La questione dell’immigrazione ci chiede di affrontare con maggior coraggio il tema ineludibile delle disuguaglianze sul piano globale e quello delle politiche di cooperazione, che sarà necessario mettere in atto al fine di ridurre le prime. Sarebbe ipocrita un atteggiamento basato semplicemente sulla strategia del respingimento e non su un fattivo impegno per lo sviluppo dei Paesi di provenienza. Né potrebbe darsi un’autentica ricerca della felicità che prescinda dal perseguimento di quella altrui o che pretenda di estraniarsi dal dolore delle persone o dei popoli vicini.

L’immigrato chiede di essere considerato non solo per il beneficio economico che può arrecare; in colui che fa ingresso nel nostro Paese si deve vedere prima di tutto una persona, che porta con sé debolezze e attese. La questione dell’immigrazione ci pone davanti alla sfida del pluralismo, invitandoci a vedere nella diversità dell’altro un’opportunità di crescita e non solo un limite; ci chiede di vincere  gli egoismi e di non cavalcare le paure, nella consapevolezza di abitare la terra senza possederla e di doverla a nostra volta lasciare; impone di ricordare il principio della comune destinazione dei beni, affidati non solo ad alcuni, ma a tutti gli uomini, e che per questo devono essere ripartiti in modo più equo.

 

Conclusioni

Le considerazioni fatte finora ci spingono a tracciare tre conclusioni. La prima riguarda il principio di sussidiarietà, da porre a fondamento di un corretto sviluppo della società.  L’esigenza di uno sviluppo integrale richiede che nessun individuo divenga un semplice ricettore di beni o di servizi, in una logica assistenzialista. Ognuno infatti ha il dovere e il diritto di esprimere le sue capacità personali. Il principio di sussidiarietà vede lo Stato come l’organismo superiore che è chiamato a svolgere una funzione di servizio nei confronti delle realtà di livello inferiore, aiutandole a impiegare le loro potenzialità a servizio di tutti. Ciò favorisce lo sviluppo dei singoli e delle varie articolazioni della società; permette inoltre a quest’ultima di godere dell’apporto di tanti alla costruzione del bene comune. Se la società trova la sua coesione nell’adesione a leggi e principi comuni, ha però bisogno della fantasia e dell’intraprendenza di ognuno. Se valorizzato e coinvolto attivamente in un progetto comune, ciascuno saprà rispondere con più generosità agli impegni che deve assumersi. E tale criterio sussidiario va applicato anzitutto ai giovani, sui quali è necessario investirei perché rappresentano la risorsa più importante di una società. Ciò si deve concretizzare anzitutto nel mondo del lavoro, che dovrà valorizzare il loro apporto per non condannarsi all’impoverimento umano, nonché a quello economico.

Un secondo punto è relativo alla verità. Uno degli atteggiamenti culturali oggi più diffusi è quello del relativismo, che porta a pensare la verità come la conformità con il proprio pensiero: perché le proprie scelte siano vere si pensa che debbano essere  frutto solamente di decisione personale. Così si ritiene che qualsiasi  criterio etico sia giustificabile, e che non vi sia un bene uguale per tutti da riconoscere e far proprio. Questo presupposto rinchiude l’uomo nella solitudine: egli rimane solo con se stesso e privo di riferimenti valoriali indipendenti dalla sua volontà. La politica dovrà rendersi capace di infrangere questa barriera, per aprirsi al riconoscimento dei valori irrinunciabili che è chiamata a promuovere, legati in ultima istanza all’uomo e conseguenza della sua dignità inviolabile. Ricordiamo che la ricerca della verità sul bene dell’uomo non può prescindere dalla ricerca di Dio, senza il quale l’affermazione della sua dignità non è al sicuro da strumentalizzazioni e fraintendimenti; e che il riconoscimento di una verità che supera l’uomo favorisce l’ancoramento alla realtà e smorza la dilagante disaffezione per la vita pubblica e la chiusura nel privato. 

Un’ultima suggestione è legata al tema della carità. L’enciclica Caritas in Veritate di Benedetto XVI mostra l’intima correlazione della verità con la carità; la verità dell’uomo infatti è in ultima istanza racchiusa nella carità, che chiede di essere vissuta nelle micro relazioni, quelle legate alla sfera individuale, così come nelle macro relazioni, attinenti alla vita sociale.[18] L’esistenza dell’uomo non sarebbe pienamente umana se egli non si aprisse agli altri in uno stile di vita solidale e fraterno. Ciò è conseguenza immediata della sua intrinseca relazionalità, che fa sì che solo nell’apertura all’altro egli realizzi se stesso. Si tratta di una sorta di scommessa, per i singoli e per tutta la società: quella di preferire una società solidale a una individualistica, e un bene che abbracci il maggior numero di persone possibile a uno riservato a pochi.

A chi compie l’alta forma di servizio della politica spetta per primo il compito di assumere questa prospettiva sulla società, facendo della carità il principio ispiratore del proprio agire, oltre che delle proprie scelte politiche. Se la logica del dono non appartiene al superfluo della vita, ma al cuore quotidiano e duro dell’esistenza perché nulla sia arido e privo di anima, ciò vale innanzitutto per chi ha scelto la politica come forma di vita a servizio del Paese. Grazie.



[1] Cfr. Benedetto XVI, Lettera enciclica Caritas in Veritate, del 29 giugno 2009, n.9.

[2] Caritas in Veritate n.32: «I costi umani sono sempre anche costi economici e le disfunzioni economiche comportano sempre anche costi umani».

[3] Caritas in Veritate n.18: «La verità dello sviluppo consiste nella sua integralità: se non è di tutto l’uomo e di ogni uomo, lo sviluppo non è vero sviluppo».

[4] È questo il tema di fondo dell’enciclica Centesimus Annus di Giovanni Paolo II, dell’1 maggio1991, che interpreta gli squilibri del socialismo e del consumismo come radicati in un errore antropologico, che paradossalmente è il medesimo per due sistemi perfino opposti: quello di una riduzione della persona alla sola sfera materiale nell’oblio della dimensione trascendente (cfr. n.19).

[5] Caritas in Veritate, n.11: «Un tale sviluppo richiede, inoltre, una visione trascendente della persona, ha bisogno di Dio: senza di Lui lo sviluppo o viene negato o viene affidato unicamente alle mani dell’uomo, che cade nella presunzione dell’auto-salvezza e finisce per promuovere uno sviluppo disumanizzato».

[6] Cfr. Caritas in Veritate, n.29.

[7] Cfr. Caritas in Veritate, n.7.

[8] Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, 2004, n.213: «Una società a misura di famiglia è la migliore garanzia contro ogni deriva di tipo individualista o collettivista». In essa infatti la persona  è sempre il fine e mai il mezzo. «In essa si fa l’apprendistato delle realtà sociali e della solidarietà».

[9] Caritas in Veritate, n.70.

[10] Cfr. Discorso di Benedetto XVI al Bundestag, del 22 settembre 2011. Ibidem: «solo il positivismo come cultura comune e come fondamento comune per la formazione del diritto, mentre tutte le altre convinzioni e gli altri valori vengono ridotti allo stato di sottocultura».

[11] Ibidem.

[12] Cfr. Caritas in Veritate, n.28.

[13] Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Centesimus annus, del 1 maggio 1991, n.41: «quando non riconosce il valore e la grandezza della persona in se stesso e nell’altro, l’uomo di fatto si priva della possibilità di fruire della propria umanità e di entrare in quella relazione di solidarietà e di comunione con gli altri uomini per cui Dio lo ha creato».

[14] Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Evangelium Vitae, del 25 marzo 1995, n.20: «La democrazia, ad onta delle sue regole, cammina sulla strada di un sostanziale totalitarismo».

[15] Discorso di Benedetto XVI al Bundestag: «è evidente che nelle questioni fondamentali del diritto, nelle quali è in gioco la dignità dell’uomo e dell’umanità, il principio maggioritario non basta».

[16] Cfr. Caritas in Veritate, n.28.

[17] Cfr. A. Bagnasco, Prolusione alla  61a Assemblea Generale della Conferenza Episcopale Italiana, Roma 24-28 maggio 2010, n.9.

[18] Cfr. Caritas in Veritate, n.2.

 

 

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