Non si può ipotizzare un modello di processo nel quale il risultato è predeterminato
Piero Martello, Presidente del tribunale del lavoro di Milano, dalle pagine del Corriere della Sera del 7 marzo 2012, pone in evidenza che la situazione giustiza in Italia non soffre solo di gravi problematiche ma mostra anche esempi di eccellenza lavorativa. È questo il caso del tribunale del lavoro di Milano.
Caro direttore, non conosco la fonte dalla quale Andrea Ichino e Paolo Pinotti ricavano le cifre sulla durata del processo del lavoro nei tribunali di Milano, Roma, Torino riportate nell’ articolo del 3 marzo scorso. Posso solo rilevare che si tratta di ricerca abbastanza datata e, per ciò stesso, di limitata utilità per una analisi riferita al momento attuale: in questa materia in continua evoluzione legislativa e giurisprudenziale, otto anni sono un tempo lunghissimo.
Se i due autori avessero cercato dati più aggiornati, avrei potuto informarli del fatto che nel 2011 la durata media del processo del lavoro a Milano è stata di 185 giorni. E questo nonostante che, nello stesso anno, il numero delle cause nuove abbia registrato un incremento del 40% rispetto all’ anno precedente; cui ha corrisposto una significativa crescita del numero dei procedimenti definiti dai giudici, aumentato del 6,7% rispetto al 2010.
Si tratta di risultati, credo, degni di nota; resi possibili da un impegno lavorativo estremo dei giudici di Milano (al pari della maggior parte delle altre sedi giudiziarie), la cui portata risalta ancor più se si considera che il tribunale del lavoro di Milano ha un numero di giudici pari a un terzo di quello di altri tribunali di analoghe dimensioni.
Credo, poi, che l’ analisi andrebbe affinata anche a proposito delle undicimila cause di licenziamento considerate dai due autori. Infatti, sarebbe necessario, prima di trarre conclusioni, vedere quante di queste riguardano la «stabilità reale», cioè l’ obbligo di reintegrare nel posto di lavoro il lavoratore licenziato ingiustamente.
Se una analisi del genere fosse stata fatta (magari con riferimento a dati più aggiornati), molto verosimilmente avrebbe mostrato che la maggior parte delle cause di licenziamento riguarda situazioni di «stabilità obbligatoria», nelle quali il datore di lavoro può scegliere se riassumere o pagare una somma al dipendente.
Ho ritenuto utile fornire queste poche cifre, sia perché ritengo giusto far conoscere un caso (non l’ unico, peraltro) di amministrazione della giustizia «virtuosa», il cui merito va riconosciuto doverosamente ai giudici del tribunale del lavoro e alle modalità organizzative introdotte dalla presidenza del tribunale di Milano; sia perché credo che la precisione dei dati favorisca la correttezza delle analisi e la congruità delle conclusioni e delle proposte che se ne traggono (e credo che su ciò i due autori saranno d’ accordo).
Suscita, poi, molte perplessità l’accostamento (fatto nel titolo e nel testo, e accentuato nell’ illustrazione) fra la decisione del processo e la roulette russa. L’ incertezza sull’ esito finale e sulla decisione del giudice, infatti, costituisce una caratteristica propria di ogni processo, anche di quello più celere. Lo studioso sa bene che la funzione di interpretazione delle leggi è tipica del giurista (giudice o avvocato); e che la (relativa) pluralità degli orientamenti giurisprudenziali costituisce una caratteristica peculiare, e preziosa, del processo.
A meno che non si voglia ipotizzare un modello di processo nel quale il risultato è predeterminato e la decisione è nota in anticipo. Ma se questo fosse il pensiero degli autori, credo, e temo, che essi finirebbero con l’ avere troppa ragione. E allora, più che una roulette russa, il processo sarebbe un juke-box.