La nostra sussidarietà non è statalista

 

L’art 118, 4° comma, della Costituzione italiana menziona il principio di sussidiarietà, che agisce dunque come criterio sufficiente per l’esercizio di attività amministrative al di fuori del novero degli enti politici.

Beninteso tali attività, che usualmente si muovono nei settori dell’istruzione-educazione, assistenza e tutela della salute (ma non c’è un elenco tassativo) debbono svolgersi nel quadro delle regole che sono proprie di ogni attività avente carattere generale. Chi prende l’iniziativa se ne assume oneri, benefici e responsabilità, perché anche le azioni che nascono da un libero convincimento, e sono espressione del c.d. privato-sociale, debbono entrare, per così dire, nella sfera pubblica dell’amministrazione e gestione di quei servizi che hanno per destinatari i cittadini, accettandone i caratteri basilari.

Questi vanno dalla limpida declaratoria dei fini, alla trasparenza e onestà dei mezzi, cioè delle strutture di ciò incaricate, per proseguire con la pubblicità delle procedure, la controllabilità delle azioni concretamente svolte, la non discriminazione e almeno tendenziale universalizzazione del servizio reso alla cittadinanza(alla quale, come è noto, sono equiparati per molti servizi pubblici i non cittadini, sia dell’Unione europea che extracomunitari).

Queste regole, ed altre correlate che adesso non posso dettagliare, sono quelle che giustificano il contributo parziale alle spese di funzionamento che i soggetti del privato-sociale – evidentemente in condizione di parità con gli altri operatori offerenti un servizio simile e provvisti dei medesimi requisiti, e dunque in gara trasparente – possono richiedere a titolo di sgravio delle spese che verrebbero altrimenti sostenute dalle amministrazioni .Tali spese sono, di regola, maggiori per gli enti pubblici, dal momento che l’ attività dei privati agenti in sussidiarietà non sarebbe, a mio avviso, concepibile e meritevole di apprezzamento se non evidenziasse robusti e qualificati apporti di tipo volontario e gratuito che consentano di abbassare i costi.

Questo è peraltro il significato autentico di quel subsidium afferre che discende dai venerabili testi ecclesiastici , ma già Dossetti lo aveva attualizzato, nel famoso o.d.g. all’Assemblea costituente, prevedendo una scala ascendente delle comunità intermedie che, sulla base dei principi di adeguatezza e di efficienza-efficacia, non poteva che contemplare lo Stato come realtà politica e amministrativa di ultima istanza (“…e quindi per tutto ciò in cui quelle comunità non bastino, nello Stato”).
E’ precisamente questo il punto di dissenso rispetto alle argomentazioni di Armillei, il quale non vorrà insegnare ai dossettiani (è per me un onore vedermi assegnato questo titolo) la scontatissima distinzione tra ciò che è pubblico e ciò che è statale. Forse l’uditorio al quale dovrebbe rivolgersi è rappresentato dai liberisti ad oltranza – alla Ostellino o alla G.Alvi – piuttosto che dagli statalisti matricolati – alla Ferrero e rifondatori vari – ma forse ne verrebbero toccati, non certo sul piano degli immacolati princìpi bensì su quello delle pratiche quotidiane, anche gli amici di CL (pardon della Compagnia delle Opere) se solo sostituissimo la qualificazione statale con regionale (o almeno ciò pare valere sotto il bel cielo di Lombardia).

Anzi, per marcare una nostra vittoria ideologica, non resisto all’idea di citare Massimo D’Alema, che, all’esito deludente della sua Grande Occasione, scrisse nel 1997, nel libro così intitolato, un elogio del pensiero cattolico-democratico ritenuto capace di reinventare una nozione di pubblico diversa da quella di statale per il fatto di assumere un “ significato analogo a quello di funzione di garanzia, di indirizzo e di controllo che non coincide affatto con la gestione diretta da parte dello Stato” (p.74).
Ripeto: non vi è nulla di particolarmente innovativo rispetto al testo costituzionale del 1948, che già contemplava il diritto dei privati di istituire scuole e università, di dar vita ad opere assistenziali e di svolgere attività in campo sanitario (quest’ultima, la più rilevante dal punto di vista quantitativo, per il combinato disposto degli articoli 32 e 41 e della legge del 1978 istitutiva del servizio sanitario nazionale) dando corpo e vitalità al principio che tutti – enti, associazioni, imprese,autonomie sociali e cittadini – concorrono, ciascuno con un proprio ruolo allo svolgimento di attività con modalità pubblica perché sono tutti soggetti costitutivi della Repubblica.

Ovviamente, ogni organismo opererà sulla base di autonome giustificazioni, che saranno di tipo doveroso per gli enti politici, a partire dallo Stato fino al più piccolo Comune, e frutto invece di libera scelta per i privati, sia di coloro che sono spinti da una motivazione for profit sia di coloro che sono animati da uno spirito not for profit. Va però sottolineato che entrare nelle rete pubblica (si ripete: non statale) di un servizio esige il soddisfacimento di quelle regole di parità formale e sostanziale alle quali prima accennavo, che non consentano situazioni di vantaggio o di favore per nessuno, di fronte all’ inevitabile potere discrezionale in capo a coloro che, sul piano amministrativo, gestiscono risorse che saranno sempre scarse, sia rispetto ai bisogni che al numero dei potenziali offerenti: il che impone di scegliere tra costoro alzando al massimo il livello di pubblicità , trasparenza e controllabilità.

Non disponiamo, a questo riguardo di studi e ricerche indipendenti e di dati certi o almeno attendibili che attestino di una amministrazione e gestione che, in questo settore sensibile e facilmente attaccabile dai particolarismi, deve essere trasparentissima e specchiatissima, avvalendosi di verifiche ex ante (sull’effettivo possesso dei requisiti per l’accreditamento, ad es.) e di controlli ex post (sull’efficienza ed efficacia della gestione) che valgano a schiarire le opacità che avvolgono il nostro campo di osservazione, per dissolvere i dubbi di una conduzione che finisca per premiare gli amici e i soliti noti. Tornando adesso alla piccola disputa ideologica che si manifesta nel forum, sono d’accordo con le argomentazioni svolte per ultimo da Filippo Pizzolato, la cui messa a punto dell’idea di sussidiarietà non solo è in linea con quanto da me sostenuto, ma arricchisce il dibattito facendolo alzare dal basso livello degli slogan a quello, che gli è proprio, di uno tra i principi ordinatori di una Repubblica democratica costruita sulla base del pluralismo delle opinioni e dei soggetti abilitati a perseguire il bene comune.

Ciò detto, prendo spunto da Franco Monaco che, senza tanti infingimenti, dichiara che il principio di sussidiarietà è di tipo regolativo e va “orientato e subordinato a un fine che lo trascende” e prosegue spingendosi a postulare “un sano e virtuoso interventismo”. Siamo, ovviamente, in piena ortodossia costituzionale, supportata letteralmente dal basilare art.2, che, affermando lo sviluppo della persona, non può non alludere a soggetti che si prendono – si debbono assumere – la responsabilità di promuoverlo in maniera efficace (in primis, dunque, lo Stato con le sue leggi e le sue amministrazioni). C’è, inoltre, l’altrettanto fondamentale art.3, che assegna alla Repubblica (di nuovo, per primo, allo Stato e ai suoi organi) il compito infinito di perseguire l’eguaglianza sostanziale e la partecipazione dei lavoratori a tutti gli aspetti della vita del Paese. Si deve poi fare riferimento, in modo specifico, agli art. 41, dove si parla di fini sociali che indirizzano la pur libera iniziativa economica privata, e 42 dove viene evocata, addirittura, la funzione sociale della proprietà.

Siamo tutti adulti e vaccinati per non ignorare che la Costituzione, essendo figlia dei suoi tempi, usa un linguaggio che può apparire datato, ma solo – ed eventualmente – perché sembra omettere quella parte che può riassuntivamente essere denominata di tutela del mercato concorrenziale, che è poi entrata anche formalmente nei nostri testi attraverso l’adesione alla Comunità europea. Essa fa di quel principio e dei suoi corollari una delle architravi della nostra convivenza civile, la quale, tuttavia, non per questo richiamo, potrebbe ignorare gli obblighi di solidarietà e coesione sociale.

Ma il cenno di Monaco, che volentieri faccio mio, non poteva non attirarsi gli strali di una certa opinione che non esito a definire cripto-liberale e, forse, cripto-agnostica, ben rappresentata, sia pure per scorci e baleni da Giorgio Armillei, che ci accusa di una forma speciale di dossettismo statocentrico, per il fatto che sosteniamo che allo stato (rigorosamente con la lettera minuscola) “spetta comunque una funzione di sintesi della dinamica sociale”. Inevitabile è, a questo proposito, il richiamo di un testo eretico per gli orecchi ultraliberali : la mitica Relazione del 1951 ai giuristi cattolici che, bontà sua, il nostro commentatore trova “non priva di accenti statalisti comuni a posizioni consistenti della sinistra socialdemocratica”.

Armillei concede che la sussidiarietà dossettiana “nasce in un orizzonte pluralistico ed esprime la precedenza dei diritti della persona rispetto allo stato”. Ma ciò non lo appaga perché, perfidamente e senza dimostrazione alcuna (salvo la citazione di un’improbabile riga di Scoppola avulsa da ogni contesto), afferma che Dossetti “finisce con l’affidare allo stato il soddisfacimento di quei diritti”. La frase finale dell’ argomento armilleo, dettata per infilzare il drago catto-comunista, è tale da non ammettere repliche : per Dossetti “è’ lo stato il curatore di ultima istanza del bene comune”. Siamo alla fiera delle ovvietà, perché mi domando cosa mai il nostro interlocutore voglia dimostrare. Se non ci fosse al vertice – ma solo alla sommità – della scala delle autorità e responsabilità pubbliche una “ organizzazione politica per la decisione”(normalmente chiamata Stato), dotata al tempo stesso del potere e del dovere di intervenire e di agire per il bene comune, (ovvero per l’interesse generale, se piace di più un lessico laico), a chi potranno rivolgersi i cittadini quando abbiano a reclamare un riconoscimento e la tutela dei loro diritti – magari davanti ai giudici, tutti e solo statali, o alla Corte costituzionale – o vogliano chiedere l’avvio di nuove politiche nel segno del progresso/sviluppo, attraverso la legislazione ovvero l’amministrazione pubblica? Cosa possono fare : si iscrivono a CL o prendono la tessera dell’ARCI o di una Coop?

Per concludere, la qualità di agente di ultima istanza spettante allo Stato non è una chimera o un sortilegio del supposto statalismo dossettiano, anche se è vero che Dossetti nel discorso citato (più famoso che capito) esortava con forza i cattolici a “ non aver paura dello Stato!”, quando costoro già si avviavano, purtroppo, a concupirlo e ad occuparlo nei suoi gangli centrali e periferici. Vorrei, per finire, stendere un velo pietoso sui paradigmi della sinistra (?) modernizzatrice che Armillei, con molta buona volontà, individua nei new democrats (ma chi sono? quanti sono? e soprattutto cosa predicano?) e nel labourismo non socialista che, ormai deprivato della luminosa guida tonyblairiana, pare invitato a seguire l’ardimentosa scia della Big Society tracciata dal capo dei conservatori David Cameron. Se sono queste le politiche che ci vengono indicate come moderne ma anche vincenti, allora non siamo messi bene.

 

 

Enzo Balboni. Insegna Diritto costituzionale all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano

 

TamTam democratico, dicembre 2011

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