Tempi certi e politica da gentleman per attrarre gli investimenti esteri

 

Giuseppe-Recchi-

Giuseppe Recchi, Presidente Comitato investitori esteri di Confindustria e Presidente Eni, dalle pagine del Corriere della Sera del 9 marzo 2012, traccia una lucida analisi sulla necessità di una strategia di lungo termine e sulla stabilità a più livelli quale presupposto inderegabile per ridare competitività al Paese.

 

La grande sfida del nostro futuro sarà continuare ad assomigliare a noi stessi, imparando ad andare alla stessa velocità degli altri. Quali siano i problemi del nostro Paese è cosa nota: scarsa flessibilità del mercato del lavoro, imposte più alte della media europea (con un cuneo fiscale molto consistente) e, più in generale, l’ incertezza del diritto. 

Questa criticità ha diverse dimensioni misurabili tra il caso Tav e quello del rigassificatore di Brindisi. Farraginosi processi autorizzativi «sul territorio» s’ incontrano con il fenomeno «nimby» – non voglio guai nel mio giardino – dando vita a una miscela implosiva per il Paese. L’ assenza di un accordo preventivo con tutti i soggetti che un investitore incontrerà nel suo percorso espone la sua iniziativa ai filtri autorizzativi più frammentati, spesso privi di una visione strategica di beneficio più ampio.

Tra le proposte inviate dal Comitato investitori esteri al governo Monti, sentiamo primaria quella di dotare della necessaria autorità un’ agenzia che funga da «sportello di ingresso» in grado di garantire al progetto in esame un processo autorizzativo che si svolga secondo le condizioni e i tempi inizialmente previsti.

La proposta del governo di adottare una versione italiana della «legge Barnier» pare allora molto ragionevole: una «consultazione preventiva» di sei mesi, nei quali dare voce a tutti gli attori sociali, potrebbe diminuire, come avvenuto in Francia, la conflittualità ad autorizzazioni ottenute. Una conflittualità, questa, che danneggia la reputazione del Paese e delle istituzioni, dando l’ impressione che fare investimenti in Italia somigli un po’ troppo a giocare alla roulette. Perché altrimenti non solo si rinuncia agli 800 milioni di euro che la BG avrebbe voluto investire nel rigassificatore di Brindisi, ma soprattutto si perde la possibilità di creare l’ indotto virtuoso e naturale prodotto da queste iniziative.

Ma l’ incertezza ha un carattere più generale nel Paese e ha una radice nell’ organizzazione della nostra amministrazione. Le nostre istituzioni politiche appaiono un po’ arrugginite, per un mondo nel quale prima ancora che i mercati finanziari è la competizione globale a sollecitare processi decisionali veloci e snelli. Quando il «fattore tempo» gioca a nostro svantaggio, è difficile rimontare.

Per questi motivi il dibattito avviato di recente sulla riforma delle istituzioni mi sembra di cruciale importanza: non tanto per far eco alle diffuse antipatie per la «casta», ma soprattutto per snellire il processo decisionale.

La bozza di riforme istituzionali prodotta dai partiti di maggioranza contiene alcune novità importanti per diventare più simili ai nostri concorrenti. La diminuzione del numero dei parlamentari mira a rendere più spedito e razionale l’ iter legislativo.

Ma ancora più importante sarebbe riuscire a dotare il presidente del Consiglio non solo della facoltà di indicare i ministri, ma del potere di revocarli. Questo, assieme al voto di fiducia a maggioranza semplice che verrebbe dato al solo premier, farebbe sì che – pur nel rispetto della forma parlamentare e non presidenziale della nostra Repubblica – il primo ministro sia un po’ più «amministratore delegato del Paese» e un po’ meno primus inter pares , accrescendone l’ efficacia esecutiva. Chi è cresciuto in azienda sa bene che per avere decisioni efficienti, in qualsiasi organizzazione un elemento è imprescindibile: il rapporto fiduciario fra il leader e i suoi collaboratori.

La forza di una squadra è, in primo luogo, la compattezza. Il talento dei membri del team è condizione necessaria ma non sufficiente: se si sviluppano situazioni di conflittualità, ognuno fa gioco a sé e per sé. Che, in politica, significa spesso il tentativo di perseguire azioni individuali e costruire nicchie di consenso, in vista del prossimo confronto elettorale. Un cocktail , questo, che può danneggiare la forza dell’ azione di governo. Nelle vecchie imprese private qualche volta l’ amministratore delegato consegnava al proprietario una lettera contenente le sue dimissioni, senza data, lo stesso giorno in cui veniva assunto. Non avveniva soltanto perché erano tempi di un capitalismo di gentlemen . Era una prova di forza, da parte di chi voleva stare dove stava solo in virtù dei risultati raggiunti e della propria competenza – e in relazioni leali e franche con tutti.

Le parole «lealtà» e «responsabilità» sono forse fuori moda, ma questo non ha ridotto la loro importanza – negli affari così come in politica. La gestione della nostra società ha bisogno di essere impostata su una visione di lungo termine e sulla stabilità a più livelli: un governo nel quale il rapporto fiduciario fra primo ministro e ministri fosse più saldo, proprio perché gli incarichi sarebbero revocabili senza la caduta dell’ esecutivo nel suo complesso, sarebbe probabilmente un governo nel quale la parola «lealtà» torna a pesare.

E, proprio per questo, un governo più efficiente ed efficace: proprio come in quelle vecchie imprese, su cui l’ Italia ha costruito i suoi primati industriali. 

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