Modernizzare le istituzioni

Riforme Istituzionali per la Terza RepubblicaEstratto da “RIFORME ISTITUZIONALI per la TERZA REPUBBLICA“ di Pierluigi Mantini.

Dobbiamo credere nella possibilità di una fase politica disponibile alla ripresa di un serio confronto per le riforme istituzionali utili al Paese, al fine di completare una ormai lunga transizione costituzionale e di riordinare i confusi materiali della cosiddetta «seconda Repubblica». Crediamo profondamente nell’assoluto valore dei princìpi fondamentali della Carta costituzionale e riteniamo parimenti necessaria la modernizzazione della parte seconda della Costituzione in ambito istituzionale.

L’Unione di Centro è convinta dell’utilità di superare, nel nuovo assetto ormai determinato dalla riforma del titolo V della parte seconda della Costituzione del 2001, il bicameralismo paritario «all’italiana», istituendo un Senato federale o delle autonomie che dia un senso compiuto alle disorganiche politiche federaliste degli anni recenti. È altresì convinta che sia parallelamente necessario ridurre i costi della politica attraverso la diminuzione del numero dei parlamentari e delle province, abrogando almeno quelle con una popolazione inferiore a 500.000 abitanti.

Nel disegno di riforma costituzionale, accanto a innovazioni che stabilizzano il ruolo del Governo, riteniamo utile prevedere l’introduzione della sfiducia costruttiva e una nuova disciplina del quorum per il referendum, essenziale strumento diretto di democrazia ora fortemente depotenziato.

La riforma propostai si fonda in larga misura, oltre i temi già accennati, sul testo discusso e approvato, con largo consenso, dalla Commissione Affari costituzionali della Camera dei deputati nella XV legislatura (atto Camera n. 553 e abbinate), recuperando anche alcune proposte di legge costituzionale della XIV legislatura. Le principali innovazioni introdotte, rispetto a quel testo, consistono nell’attribuzione alla Camera dei deputati, anziché al nuovo Senato federale della Repubblica, delle leggi in materia di princìpi fondamentali di cui all’articolo 117, terzo comma, della Costituzione, nella modifica allo stesso articolo 117 e nella reintroduzione della nozione dell’«interesse nazionale della Repubblica».

Riteniamo infatti che, per un corretto ed equilibrato assetto delle competenze, il Senato delle regioni non debba anche «autodeterminare» i princìpi fondamentali delle materie e che tale competenza debba essere più opportunamente svolta dal legislatore nazionale ossia dalla Camera dei deputati. Riteniamo inoltre che, in molti campi, occorrano politiche nazionali, ma non stataliste, per unire il «sistema Paese» e per vincere le sfide della competitività. Avanziamo proposte ben meditate in materia di conciliazione tra politica e giustizia, con la facoltà, a determinate condizioni, di sospendere il processo per la sola durata del mandato in corso, e anche in materia di riforma della composizione del Consiglio superiore della magistratura, affidando al Presidente della Repubblica la nomina di un terzo dei componenti. Sono proposte ragionevoli e meditate che si fanno carico dei problemi emersi in una lunga stagione di conflittualità tra politica e magistratura e che offrono soluzioni equilibrate.

Il bicameralismo paritario, ben noto nel costituzionalismo meno recente, è stato via via abbandonato in gran parte degli ordinamenti liberaldemocratici, fino a costituire, oggi, una vera e propria rarità costituzionale. Esso, inoltre, se continua a sopravvivere nell’ordinamento statunitense e in quello elvetico, che sono caratterizzati dall’assenza del rapporto fiduciario tra esecutivo e legislativo, si rivela ancor più problematico laddove coinvolge non solo il procedimento legislativo, ma anche la formazione e la rimozione dei governi: e ciò si verifica oggi solo nel regime parlamentare italiano, oltre che in quello (peraltro corretto con elementi di tipo semipresidenziale) in vigore in Romania sulla base della recente Costituzione del 1991. Anche il bicameralismo apparentemente paritario previsto nell’ordinamento canadese è poi stemperato da una serie di convenzioni costituzionali le quali, da un lato, escludono il Senato dal rapporto di fiducia e, dall’altro, fanno sì che la seconda Camera non insista sulle sue posizioni quando vi è un chiaro orientamento della Camera politica in una certa direzione.

Il bicameralismo paritario è, com’è noto, fonte di lentezza e di scarsa efficienza dell’azione di governo. Ciò è ancor più visibile nel contesto attuale, ove il bicameralismo paritario rischia di paralizzare il funzionamento fisiologico delle istituzioni in presenza di possibili maggioranze contrastanti nelle due Assemblee parlamentari. L’esigenza di riformare il Senato della Repubblica si salda, d’altro canto, con un’istanza relativa all’assetto del sistema regionale italiano, rimasto incompleto a seguito della riforma del titolo V della parte seconda della Costituzione, approvata nel 2001. Tale riforma preannunciava un’ulteriore riforma della parte della Costituzione relativa alla composizione del Parlamento, con una formula – contenuta nell’articolo 11 della legge costituzionale n. 3 del 2001 – che è stata considerata come una «promessa costituzionale». A tale promessa il testo in esame tenta di dare adempimento.

La trasformazione del Senato della Repubblica in un vero e proprio Senato federale della Repubblica, eletto su base regionale, dai consigli regionali e dai consigli delle autonomie locali, è una scelta di grande rilievo, non priva certo di qualche controindicazione, ma finalizzata all’obiettivo di dare una voce ben identificata alle regioni e alle autonomie locali nel Parlamento nazionale e, in particolare, nel procedimento legislativo. La modalità di elezione del Senato federale della Repubblica tiene conto, d’altro canto, della forma data alla Repubblica dall’articolo 114 della Costituzione, come riformato nel 2001: si tratta di un sistema che – pur attribuendo alle regioni una posizione privilegiata nella legislazione – valorizza fortemente anche il ruolo delle autonomie locali. A questa impostazione corrisponde la scelta di far eleggere i senatori dai consigli regionali e, in misura minore, dal consiglio delle autonomie locali. Quest’ultimo organo dovrà però essere oggetto di alcune norme statali che ne prescrivano un’omogeneità minima che gli statuti regionali dovranno rispettare al fine di meglio connotare il nuovo Senato come Senato delle autonomie più che delle sole regioni. A parte la novità rappresentata dai senatori eletti dalle autonomie locali, questo metodo di elezione del Senato riprende il noto modello del Bundesrät austriaco, praticato anche in altri Paesi: in Spagna (peraltro solo per una minoranza dei senatori), negli Stati Uniti d’America fino al 1913, in India (articolo 80, quarto comma, della Costituzione del 1950).

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