Scenari verso la Terza Repubblica

copertinaicoEstratto da   “RIFORME ISTITUZIONALI per la TERZA REPUBBLICA “ di Pierluigi Mantini.

La rivolta è scoppiata il 17 dicembre, quando Mohamed Bouaziz, un giovane laureato che per vivere faceva l’ambulante abusivo a Sidi Bouzid, si è dato fuoco per protestare contro la polizia comunale che gli aveva sequestrato la merce, morendo alcuni giorni dopo. Il 6 gennaio migliaia di avvocati hanno aderito a uno sciopero della categoria indetto in tutte le città contro il governo. I legali hanno denunciato «un uso senza precedenti» della forza e hanno affermato il dovere di «difendere la libertà di espressione» e «il diritto degli abitanti di Sidi Bouzid e di altre regioni all’occupazione, alla dignità».

Ma la rivolta nel Nord Africa si è estesa ovunque, Egitto, Algeria, Libia, Siria, Yemen e anche in Marocco, Giordania e Arabia Saudita, con diversi effetti.

Secondo i dati di Fortress Europe dal 1998 ad oggi sarebbero 15.760 i migranti inghiottiti nel cimitero del Mediterraneo, cercando di raggiungere l’Europa.

Da alcuni giorni decine di migliaia di giovani “indignados” automobilitati sulle reti sociali sono scesi in piazza in più di 50 città spagnole. A Madrid a centinaia hanno occupato Puerta del Sol, nel cuore della capitale. A Barcellona hanno piantato le tende a Plaza Catalunya. Si sentono schiacciati dalla crisi, dalla precarietà, dal vuoto di speranza, dicono di non sentirsi rappresentati da una politica “collusa” con la banca, denunciano una disoccupazione al 21% nel paese, 44% per i meno di 25 anni.

Si riconoscono nella piattaforma “Democracia real ya” (Vera democrazia subito) e nel movimento “15 Maggio” (“15 M”), chiedono una “democrazia partecipativa”, dicono “Basta Ya” a un sistema politico dominato dal bipartitismo Psoe-Pp, che vedono nelle mani di una sorta di casta di iniziati consociativi, nella quale serpeggia la corruzione. Ora una delegazione di “indignados” è giunta a Milano.

Il Presidente dell’Istat Giovannini, nella presentazione del Rapporto Annuale sullo stato del Paese, ha sostenuto che «il tasso di crescita dell’economia italiana è del tutto insoddisfacente e anche i segnali di recupero congiunturale dei livelli di attività e della domanda di lavoro non sembrano sufficientemente forti e diffusi per riassorbire la disoccupazione e l’inattività, rilanciando redditi e consumi». Ha poi notato che «l’occupazione sta ora crescendo prevalentemente nei servizi a più basso contenuto professionale, a fronte della riduzione del numero delle posizioni più qualificate. Ciò implica, a parità di altre condizioni, un sottoutilizzo del capitale umano, guadagni più bassi, minori prospettive di sviluppo».

Giovannini ha poi aggiunto: «I giovani e le donne hanno pagato in misura più elevata la crisi, con prospettive sempre più incerte di rientro sul mercato del lavoro, le quali ampliano ulteriormente il divario tra le loro aspirazioni, testimoniate da un più alto livello di istruzione, e le opportunità. Una quota sempre più alta di giovani scivola, non solo nel Mezzogiorno, verso l’inattività prolungata, vissuta il più delle volte nella famiglia di origine, e verso bassi livelli di integrazione sociale, soprattutto per quelli appartenenti alle classi sociali meno agiate. Oltre il 40 per cento dei giovani stranieri abbandona prematuramente la scuola, alimentando un’area di emarginazione i cui costi non tarderanno a diventare evidenti. Le donne vivono una inaccettabile esclusione dal mercato del lavoro. Per di più, il carico di lavoro familiare e di cura gravante su di loro rende più vulnerabile un sistema di ’welfare familiare’ già debole, nel quale esse hanno cercato di supplire alle carenze delsistema pubblico. Peraltro, le donne sono ancora troppo spesso costrette a uscire dal mercato del lavoro in occasione della nascita dei figli. Ad essere investiti da una vulnerabilità crescente, insieme ai giovani e le donne, sono gli anziani. Povertà e deprivazione riguardano spesso le famiglie di ultrasessantacinquenni. Inoltre, molti anziani con gravi limitazioni non sono aiutati né dalle reti informali, né dai servizi a pagamento, né dalle strutture pubbliche. La carenza di queste ultime produce così non solo un costo aggiuntivo per le famiglie, ma rischia di mettere in concorrenza la cura dei bambini con l’assistenza degli anziani, i cui bisogni crescono con l’allungarsi della vita. I necessari interventi volti al controllo della finanza pubblica non devono andare a discapito della capacità dei Comuni di svolgere interventi socio-assistenziali».

I fatti corrono veloci, la politica appare spesso lenta, impotente.

Occorre cambiare l’agenda delle priorità e l’Italia deve riprendere il cammino delle riforme, anche istituzionali, su cui ci si attarda da oltre un decennio.

“Veni Spiritus Creator”: l’invocazione di Benedetto Croce sui lavori dell’Assemblea Costituente fu generosamente accolta nei lavori che portarono alla Carta Costituzionale del 1948.

Non altrettanto può dirsi nei tentativi di grandi riforme costituzionali dell’ultimo trentennio, dal cosiddetto “decalogo Spadolini” (1982), dal Comitato Riz-Bonifacio (VIII legislatura), dalla Commissione Bozzi (IX legislatura), dalla Commissione De Mita-Iotti (XI legislatura), dal Comitato Speroni (1994), dalla Commissione D’Alema (XIII legislatura) fino al disegno di legge della cd. “devolution”, approvato dalle Camere nel 2005 e respinto dal corpo elettorale nel referendum confermativoi(1).

Solo la riforma del Titolo Quinto nel 2001, confermata dal referendum, è andata in porto, sebbene figlia di un’improvvisa accelerazione della decisione politica, che ne ha depotenziato la qualità, e di un voto parlamentare di stretta maggioranza.

Le ragioni di questi “fallimenti” sono molteplici, connesse a diverse stagioni politiche, e variamente analizzate.

Le uniche riforme costituzionali scaturite da “larghe intese”, con maggioranze parlamentari qualificate, sono state quelle di tipo puntuale, su singoli temi o articoli, quale il voto e la rappresentanza parlamentare degli italiani all’estero (art. 56 Cost.), l’accesso alle cariche pubbliche in condizioni di parità di genere (art. 51 Cost.), il nuovo art. 111 Cost. sul giusto processo.

Negli altri casi o i progetti di riforma non hanno avuto esito parlamentare oppure, come nel 2001 e nel 2006, si è dovuto fare ricorso all’”apporto costituente” del popolo, ai sensi dell’art. 138 Cost., con risultati peraltro differenti.

Già questi elementi ci confermano due significativi dati politici.

Il primo è costituito dall’assenza del necessario “spirito costituente”, o per debolezza del quadro politico o per insufficiente condivisione del progetto riformatore (nella fase 1982-1993), cui si è aggiunto il clima divisivo della stagione del bipolarismo (dal 1994 ai nostri giorni), con un effetto centrifugo, di polarizzazione appunto sulle coalizioni, una condizione di per sé sfavorevole al presupposto necessario delle larghe intese.

Il secondo dato, coerente con il primo, è lo spirito di “prudenza costituzionale” che emerge dall’esperienza degli scorsi decenni, nel senso che si sono preferite modifiche puntuali della Costituzione anziché “grandi riforme” che comunque non hanno mai ottenuto le necessarie maggioranze qualificate.

Si sono piuttosto ricercati per altre vie (leggi elettorali, estensione della decretazione d’urgenza e delegata, poteri di ordinanza, modifiche regolamentari e di prassi, estensione dei poteri della Conferenza Stato-Regioni-Enti locali, riorganizzazione degli attori politici…) quei correttivi, in specie in direzione del rafforzamento degli esecutivi, dei sindaci e dei governatori e del federalismo, che non hanno trovato compiuto esito nelle riforme costituzionali.

Si sono così determinate delle distorsioni dell’assetto istituzionale, nella fase della cd. Seconda Repubblica, che potremmo definire come una stagione di premierato sbilanciato e di federalismo frammentato.

Sta di fatto che, sul piano del giudizio politico, questa stagione non è riuscita a produrre riforme significative né sul piano istituzionale né su quello economico o sociale e neppure sul delicato tema dei rapporti tra politica e giustizia, che lacera le istituzioni e la vita politica in modo ormai intollerabile.

Il Paese appare sempre più diviso, rissoso e distante dalla politica, crescono i costi e le “caste” locali, i conflitti generazionali e di genere, tra le categorie produttive, tra cittadini e immigrati, tra Nord e Sud, tra oligopoli e consumatori. Il voto alle elezioni regionali del 2010 ha confermato l’avanzata delle forze radicali e populiste che condizionano in modo decisivo e intollerabile entrambi gli schieramenti, determinando la vera “anomalia italiana”.

Il voto alle amministrative del 2011 dice molte cose, dalla netta sconfitta di Berlusconi e delle forze di governo ad una certa diffusa voglia di cambiamento, ma esso appare anche più un voto di “sfiducia” che di fiducia in soluzioni di larga condivisione per il governo necessario alle riforme imposte da “Europa 2020”.

Crescono anche, in modo vistoso, le lacerazioni e le difficoltà nei partiti maggiori e l’incapacità di governare le grandi sfide globali del nostro tempo, dal lavoro che si trasforma, all’ambiente e l’energia, al ruolo protagonista dell’Italia in Europa e nel mondo, alle necessarie riforme economiche e sociali. Una situazione ancor più preoccupante alla luce della crisi della Grecia e degli attacchi speculativi all’euro e della debolezza di Irlanda, Portogallo e Spagna, che tocca l’Italia.

In queste condizioni politiche, appena richiamate, è invero difficile pensare di poter riprendere con successo la via delle riforme basate sulle “larghe intese” solo per le modifiche costituzionali.

Ed infatti, ancora nei giorni recenti, si minacciano soluzioni di parte da sottoporre al voto popolare, secondo un approccio populista che disdegna il confronto necessario alla costruzione di riforme condivise e che presenta il presidenzialismo o la riforma della giustizia più come una minaccia che come un modello su cui ragionare.

Se quella che attende la seconda parte della XVI legislatura fosse in effetti una stagione di difficoltà di una classe dirigente di governo, come appare, contrassegnata da scandali, lacerazioni e conflittualità, sarebbe assai problematico nutrire speranze di successo per il percorso delle riforme istituzionali. Sarebbe soprattutto ottimistico immaginare la possibilità concreta di separare i “due tavoli”, quello del governo quotidiano e quello “costituente”, ritrovando lo spirito delle larghe intese nella fase discendente del bipolarismo muscolare e conflittuale.

A ben vedere, il bipolarismo all’italiana produce l’esasperata difesa della propria parte contro l’altra, con un effetto centrifugo, mentre per le riforme a maggioranza qualificata occorre un effetto “centripeto”, un moto verso il centro.

Per questo noi esprimiamo la convinzione che il modello delle riforme istituzionali e la soluzione politica di governo debbano essere sorrette dallo stesso spirito, dalla stessa cultura: la ricerca di larghe intese per il Paese, per le riforme istituzionali e per le grandi riforme economiche e sociali da tempo necessarie.

È una scommessa concreta sul futuro, che implica l’uscita dalla logica delle piazze contrapposte e del bipolarismo demonizzante dominato dal populismo e dal cesarismo, per ritrovare una via unitaria intorno ad una formula chiara: ciò che serve per fare le riforme istituzionali serve anche per il governo del Paese. Non più la ricerca di un’assai improbabile divisione tra i “due tavoli”, quello delle riforme da quello del governo, con maggioranze diverse, ma la costruzione della stessa formula, le larghe intese tra i moderati e le grandi forze nazionali, l’affermazione dello “spirito costituente” sia per le riforme che per il governo del Paese. È una proposta, illustrata da Casini con la formula del “governo di salute pubblica” che, come dimostrato da recenti sondaggi, incontra il favore dei cittadini più che dei partiti.

Si tratta, in sostanza, di riprendere l’intuizione di Moro su una nuova fase della democrazia in Italia in grado di coinvolgere e allargare la base della partecipazione al governo ma non, come negli anni Settanta, per legittimare la sinistra, che non è più marginale ed è già legittimata, quanto per “riunire i moderati” artificialmente divisi dai confini attuali del bipolarismo, per un governo democraticamente forte, in grado di fare le riforme e di declinare il sogno di un Paese normale, una comunità coesa nei valori e competitiva nelle sfide globali.

Un ritorno necessario alle radici del modello italiano: un governo forte perché sorretto da un’ampia maggioranza, basato sui valori delle libertà democratiche affermatisi nell’Occidente.

Ma un tale passaggio di fase, che certamente implica scomposizioni traumatiche e non prive di complessità sul piano dei processi politici, ha bisogno di un paradigma politico forte, che noi individuiamo nella formula della Terza Repubblica.

Una Terza Repubblica basata sulla rottamazione e il riuso dei materiali dispersi e incoerenti della Seconda e sull’ispirazione della Prima, al netto degli errori, come il processo storico di valutazione consente.

Una Terza Repubblica in grado di superare le divisioni vetuste e insignificanti tra Destra e Sinistra risalenti al Novecento e di sviluppare un’idea più moderna, ampia e qualitativa di governo della democrazia, volta al futuro e non solo al passato, ai temi delle nuove generazioni, delle reti globali, dell’energia, dei saperi, del lavoro che si trasforma, di un umanesimo di ispirazione cristiana fondato sulle libertà, la responsabilità sociale, il rispetto della persona, la famiglia, la sussidiarietà.

Una Terza Repubblica democraticamente forte, in grado di recuperare la cultura del limite e dell’etica nella politica e di fare le riforme e le politiche che consentano di recuperare i ritardi e le anomalie dell’Italia.

Forse, anche, una Terza Repubblica, dei “partiti contro i presidenti” secondo la formula di un recente saggio (Calise M. La Terza Repubblica, Editori Laterza, 2006). Ma partiti nuovi, legittimati, moderni.

Per costruire questa Terza Repubblica occorrono certamente riforme costituzionali che si facciano carico del completamento e della correzione del federalismo e del bicameralismo paritario e di un più avanzato equilibrio tra esecutivo e parlamento, tra politica e giustizia. Ed occorre una nuova legge elettorale.

Su questi complessi temi abbiamo presentato proposte di legge impegnative, frutto di un accurato dibattito nei mondi universitari, nelle Fondazioni, nelle aule parlamentari.

Proposte e soluzioni, non solo analisi, ispirate al modello che potremmo definire “italo-tedesco”.

Per una fase politica nuova occorre un’agenda nuova di priorità fondata sui materiali più maturi e condivisi emersi dal travaglio di questa confusa “Seconda Repubblica”.

Nelle pagine che seguono illustriamo due specifiche proposte di legge di revisione costituzionale e due proposte di riforma elettorale.

La prima affronta il tema del superamento del bicameralismo paritario e dell’istituzione del Senato Federale o delle Autonomie, con un modello che riprende la cd. “bozza Violante”, su cui si manifestò ampio consenso nella XV legislatura, con alcune motivate diversità (approvazione dei “principi fondamentali” da parte della Camera e non dello stesso Senato delle Regioni; introduzione del principio di interesse nazionale; ridefinizione di alcune competenze legislative del titolo quinto). Ne consegue la riduzione del numero dei parlamentari.

Ma il testo propone anche un equilibrio più avanzato tra governo e parlamento, ad esempio con il potere diretto di nomina e revoca dei ministri da parte del premier e la “corsia privilegiata” per l’esame dei disegni del governo e, ex adverso, lo strumento della “sfiducia costruttiva” nelle mani del parlamento. Ed ancora la riduzione delle province inferiori ai 500.000 abitanti, la rivisitazione del quorum per i referendum, un nuovo equilibrio del CSM (con la nomina di 1/3 dei componenti da parte del Capo dello Stato).

La seconda proposta di revisione costituzionale riguarda gli artt. 41, 97 e 118 Cost. con un intento dichiaratamente dialettico rispetto al disegno del governo, proponendo costruttivamente la nostra concezione delle libertà economiche, della semplificazione amministrativa, della sussidiarietà orizzontale.

Si tratta di temi di grande rilievo su cui è in realtà sufficiente agire con legislazione ordinaria, con un’azione orientata allo sviluppo del Paese.

Delle proposte di riforma elettorale, orientate al modello “italo-tedesco”, diciamo nel quarto capitolo, con spirito aperto e con la consapevolezza del rilievo politico del tema.

Ma, soprattutto, occorre un’azione politica coerente, sorretta con chiarezza da un’unica visione: “lo spirito costituente per le riforme e per il governo del Paese”.

Per noi, sul piano politico, questa visione è anche un elemento fondante verso il “Nuovo polo per l’Italia” che vogliamo sviluppare.

 

Non abbiamo detto, e una ragione c’è, della riforma Alfano del titolo quarto della Costituzione, dedicata alla magistratura e alla giustizia.

Innanzitutto, il confronto è appena agli inizi e non è dato conoscerne gli esiti.

In secondo luogo, la sostituzione, ora solo annunciata, del ministro Alfano con altro Guardasigilli potrebbe comportare qualche novità anche nel merito.

Tuttavia abbiamo già espresso, con spirito costruttivo, alcune osservazioni sul disegno governativo definito come la “riforma epocale della giustizia”.

Come emerso anche nel corso delle prime audizioni, desta preoccupazione la notevole “decostituzionalizzazione” dei principi, che sono in fatto rinviati a ben 11 leggi ordinarie di attuazione e, dunque, alle maggioranze politiche del momento.

Si determina, per tale via, una notevole instabilità dei principi che presiedono all’ordinamento giudiziario e alla stessa giurisdizione, con effetti negativi e inaccettabili.

Lo stesso mutamento del titolo quarto, da “magistratura” in “giustizia”, appare del tutto ingiustificato sul piano della sistematica costituzionale.

Nel merito, è ovvio, si può e si deve discutere, liberando però il terreno dalle mistificazioni.

La responsabilità civile per i magistrati che commettono errori, per colpa grave o dolo, è necessaria ed è utile migliorare, come abbiamo già proposto con uno specifico testo, la legge del 1988 prevedendo l’abolizione del “doppio filtro” e la compartecipazione del magistrato al risarcimento, dovuto dallo Stato ai sensi dell’art. 28 della Costituzione, nei limiti dei criteri sul danno erariale ossia di una parte limitata dello stipendio. Ma si tratta di errori, per colpa grave o dolo, relativi a fatti e obblighi di legge, non all’interpretazione della legge che è il cuore dello iuris dicere e per cui sono previsti gli ordinari rimedi processuali.

I correttivi sono da stabilirsi con legge ordinaria, non vi è bisogno della norma costituzionale che già c’è (art. 28 Costituzione).

Il tema della separazione delle carriere è delicato e complesso ma la proposta del governo è eccessiva: l’autonomia e l’indipendenza vengono affidati alla legge ordinaria ossia alla maggioranza politica di turno e il CSM viene diviso in tre parti, peraltro con una composizione a maggioranza politica.

Noi riteniamo che trasformare il pubblico ministero in un mero “avvocato di accusa” sia pericoloso per l’equilibrio tra le parti e le garanzie dell’imputato perché le procure hanno comunque mezzi investigativi e risorse, per quanto ridotti, enormemente superiori a quelli della difesa ed è pertanto giusto il principio secondo cui il pubblico ministero debba ricercare non solo le prove della colpevolezza ma anche quelle che emergono a discarico dell’imputato. Insomma è utile che esso sia garante della legalità anche ai fini delle garanzie dei diritti fondamentali di libertà individuale. Nel corso delle audizioni, e in numerosi convegni, l’Unione degli Avvocati Penalisti ha insistito per la tesi della separazione delle carriere, evidenziando in particolare la necessità di meglio marcare la “terzietà del giudice” rispetto alle parti processuali, ai sensi dell’art. 111 Cost. e dei principi del processo accusatorio. E’ una tesi che merita piena considerazione.

Ma gli stessi avvocati penalisti hanno anche ammesso che il processo penale italiano è finito in un guado, non ha più la fisionomia tipica del rito accusatorio (basti pensare al sistema delle impugnazioni), e che in quella direzione si dovrebbe tornare con gli opportuni correttivi.

Dunque vi è un lavoro da fare con legislazione ordinaria e a ciò non ci sottraiamo.

Prima di modificare la Costituzione è più opportuno riesaminare il modello del rito penale.

Si possono inoltre prevedere più responsabilità, meno “esternazioni pubbliche” dei magistrati, ma a tal fine non è necessario modificare la Costituzione ed appare inappropriata la norma che tende a comprimere l’autonomia dei pareri del CSM.

La composizione del CSM può essere rivista e noi abbiamo proposto che un terzo dei componenti sia di nomina del Capo dello Stato che li designa tra gli ex presidenti della Corte Costituzionale, della Cassazione, del Consiglio di Stato ed anche di Camera e Senato, a garanzia di imparzialità, competenza, indipendenza.

L’obbligatorietà dell’azione penale è principio irrinunciabile perché una giustizia politica non sarebbe soluzione migliore dell’attuale ma certo sono possibili adattamenti come quelli già previsti dalla nota “circolare Maddalena” per graduare meglio l’agenda processuale in relazione alla “particolare tenuità del fatto- reato” e alla prognosi relativa alla prescrizione dei processi.

In sostanza i temi per un positivo confronto parlamentare non mancano.

Le condizioni che abbiamo posto al ministro Alfano, e che riproponiamo al suo successore, sono dunque tre: che si completi l’agenda delle riforme istituzionali (non solo giustizia); che si dismettano i toni da crociata antigiudici che ostacolano lo “spirito costituente”; che si modifichi la Costituzione solo ove strettamente necessario.

Naturalmente vi è anche una precondizione ossia che non si abbandoni l’impegno riformatore per una giustizia ordinaria più rapida ed efficiente. Spes ultima dea.

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