L’intervista a marco Rossi Doria

tratto da Terre di Mezzo del settembre 2011.

Una cosa non si deve chiedere a Marco Rossi Doria: di rinunciare alla cravatta. L’ha sempre indossata, anche quando prestava servizio nei Quartieri Spagnoli, dove è stato per 12 anni “maestro di strada”. “È un promemoria -spiega-, perché non puoi chiedere a un tuo alunno di essere responsabile, se tu sei il primo a negare la tua età”.

Il professore parla lentamente, alternando termini forbiti e dialetto: ogni due parole una pausa, è di una chiarezza quasi spietata. Una caratteristica che ha affinato “riacciuffando” i ragazzi nei vicoli più degradati di Napoli. Era il 1995, così nasceva “Chance”, “ribattezzata subito Scianz dai ragazzi -ricorda Rossi Doria-: era la scuola della seconda occasione, dedicata a chi, in un percorso tradizionale, non era riuscito a conseguire nessun titolo di studio e per questo aveva abbandonato”. Un fenomeno che, secondo l’Istat, nel 2010 ha riguardato un giovane su cinque tra i 15 e i 24 anni, uno su tre nelle aree metropolitane del Sud.

Perchè rispondere alla dispersione scolastica facendo il “maestro di strada”?

La sfida, ancora oggi, è quella di reinventarsi un’altra scuola: è incredibile pensare di rimandare forzosamente i ragazzi dentro un’aula da cui sono scappati. In fondo, la scuola dovrebbe servire a chi altrimenti non ci andrebbe.

Una scelta borderline, soprattutto per lei che non proveniva dai vicoli, ma da una famiglia “bene”.

La scelta vera è stata quella di insegnare: ho deciso di rompere con tutto per lavorare come maestro. Avevo 22 anni (ora ne ha 57) e mi sembrava così di stare dalla parte giusta della società. Allora, eravamo in tanti.

Come si fa a offrire una seconda chance?

La cartolina che manda il Comune, responsabile dell’obbligo scolastico, certo non basta.

Occorre partire dalle esigenze educative dei ragazzi, anziché dalle ore-cattedra dei docenti: tutto si basa sulle relazioni. A Napoli prima di invitare gli alunni alle lezioni, ci siamo fatti conoscere dal quartiere attraverso lo sport, i laboratori, fermandoci semplicemente a parlare. Eravamo 27 insegnanti statali, più psicologi, artisti, assistenti sociali, mamme, bidelle. A chi riusciva a conseguire la licenza media, proponevamo di continuare la formazione professionale, con l’aiuto di cuochi, meccanici, parrucchieri e artigiani.

Quanti studenti siete riusciti a coinvolgere?

Più di mille in dieci anni, ma nel frattempo sono nate altre scuole di “seconda occasione”: “Provaci ancora Sam” a Torino, “Icaro” in Emilia-Romagna, senza contare le realtà all’avanguardia di Sicilia, Calabria e Puglia. Ognuna con il proprio stile, ma tutte accomunate dalla volontà di costruire una rapporto di fiducia con alunni e genitori. Per spingere i ragazzi a impegnarsi, bisogna prima di tutto aiutarli a socializzare: il segreto è imparare insieme.

La pagella di queste esperienze come sarebbe? Non le chiedo un voto, ma almeno un giudizio…

Una giornata senza difficoltà non c’è mai, lo metti in conto: il primo giorno ti distruggono

le aule, qualcuno poi finisce in prigione o torna alla vita precedente. Però per tanti si apre

una porta su una nuova prospettiva.

Quanto ci si sente soli nel combattere la dispersione?

Dipende. A Napoli eravamo sostenuti anche a livello scientifico: abbiamo collaborato con il dipartimento di Neuroscienze dell’università Federico II, con la cattedra di Psicologia dell’educazione de La sapienza, con ricercatoriel Consiglio d’Europa. Poi, però, qualcosa si è inceppato.

Che cosa?

Le istituzioni hanno smesso di finanziarci e abbiamo dovuto chiudere. Un peccato mortale della politica tanto che, oggi, una città come Napoli non ha più una scuola per i ragazzi in difficoltà e il problema educativo sta diventando drammatico. Ovunque. Difficile pensare a delle riforme, visto il taglio di 13 miliardi di euro previsto per il prossimo triennio… La situazione è resa ancora più grave dalla questione demografica: per ogni minore sotto i 16 anni ci sono 149 persone che ne hanno più di 70. Eserciti di adulti che riveriscono figli e nipoti, impedendo loro di crescere: gli insuccessi scolastici ora si combattono in tribunale, con il ricorso al Tar.

Una scuola sempre più sola e povera, quindi. Altro che seconda possibilità…

Tutt’altro. Se lo Stato investe sempre meno nella formazione, siamo noi a dover trovare, pure tra i privati, denaro per i nostri progetti, ma siamo anche chiamati ad interrogarci su come usiamo le nostre energie. Tra i banchi ci sono casi tragici: non vanno abbandonati, ma bisogna capire come aiutarli senza trascurare i penultimi, che sono tanti e forse hanno più speranze di essere salvati.

Che cosa servirebbe alla scuola italiana?

Una reale autonomia. Ai presidi si dovrebbedare un organico adeguato e dire: “Questi sono i risultati attesi. Per ottenerli, fate quello che vi pare”. L’unico vincolo deve essere l’articolo 3 della Costituzione: rimuovere gli ostacoli che impediscono di essere veramente cittadini.

In concreto?

Si potrebbe, ad esempio, superare la corrispondenza tra aula e classe. Perché la ragazzina chiattona e brava in matematica dovrebbe fare le stesse ore di algebra e ginnastica dei compagni? Quella che si fa passare per eguaglianza,

in realtà, è brutta standardizzazione. Alcune materie vanno insegnate a tutti, altre in base alle inclinazioni e ai bisogni degli allievi.

Ma che cosa fa un maestro, quando suona l’ultima campanella?

Dopo trent’anni di mestiere, credevo di sapere un sacco di cose. Invece, ho ripreso a studiare. Mi sono trasferito a Trento e cerco di capire come funziona lì il sistema di formazione professionale. Certo, spero di vedere rinascere Chance prima di andare in pensione. Ho scelto solo una ritirata strategica. Ma aspetto il prossimo assalto.

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