tratto da www.focussalute.it del 14 ottobre 2011
Intervista di Focus salute alla portavoce di Alleanza per l’Italia
Onorevole Lanzillotta, alla fine di settembre l’Assemblea della Camera ha approvato in prima lettura il testo di un progetto di legge nel quale sono previste significative innovazioni nel settore dell’informatica e della telematica Alcune di queste sono state introdotte grazie all’approvazione di alcuni emendamenti da lei presentati. Come mai questa sua attenzione a un argomento così “tecnico”?
«Penso che sia un’attenzione in qualche modo “dovuta”, stanti l’innovatività della questione e le sue ricadute. La diffusione della cosiddetta “sanità elettronica” ha tante implicazioni non solo dal punto di vista della qualità dell’assistenza che, comunque, rimane l’obiettivo prioritario. Si tratta, infatti, di un settore con grandi potenzialità di sviluppo di nuove tecnologie, che potrebbe costituire anche un importante volano di crescita economica. La sanità in Italia rappresenta qualcosa di simile a quello che la Difesa rappresenta per gli USA: la più grande voce di spesa pubblica che, proprio coma le Difesa negli USA, può essere anche volano di innovazione e crescita.
Non è “solo” questo, però…
«Certamente no. Le innovazioni tecnologiche hanno una funzione fondamentale anche nella gestione dell’apparato sanitario e dei servizi che questo è chiamato a erogare alla popolazione. Per fare un esempio, basti pensare ai continui aumenti dei costi dell’assistenza. Ebbene, l’applicazione delle nuove tecnologie potrebbe contribuire anche al loro contenimento, oltre che a migliorare i servizi alla cittadinanza. Ma si possono aggiungere altri vantaggi dell’introduzione delle tecnologie innovative come, per fare un altro esempio, la trasparenza nell’erogazione delle prestazioni e la loro “controllabilità”. Questo è un aspetto molto rilevante anche nell’ottica della determinazione dei costi standard e dell’attuazione del federalismo».
Con un’attenzione particolare alla telemedicina?
«Sì, credo possa essere una risorsa importante, soprattutto in un momento nel quale si parla sempre più, a ragione, di deospedalizzazione delle cure e del potenziamento dell’assistenza sul territorio. In un contesto demografico e geografico come quello del nostro Paese, non è affatto necessaria una concentrazione dell’assistenza nelle strutture ospedaliere, ma, anzi, è indispensabile una medicina sempre più vicina al domicilio della persona . Si tratta di realizzare una sorta di “rivoluzione” copernicana che porti le cure dov’è il cittadino e non il contrario».
È anche un problema di equità, dunque?
«Senz’altro. Tanto più alla luce delle dinamiche istituzionali devolutive messe in moto ormai da diversi anni. La progressiva regionalizzazione del Servizio sanitario pubblico avrebbe dovuto avvicinare la gestione dei servizi assistenziali ai bisogni della popolazione. A questo dovevano servire i Lea, i Livelli essenziali di assistenza, la determinazione dei fabbisogni e gli annunciati costi standard. Nei fatti, però, la regionalizzazione ha avuto come conseguenza che il carattere nazionale del Servizio sanitario è stato ridotto a mera finzione. E questo è accettabile solo in parte, perchè non si sono approntati meccanismi efficaci per assicurare l’eguaglianza delle prestazioni sull’intero territorio, che dovrebbe essere uno dei capisaldi di un Servizio sanitario nazionale universalistico come, sulla carta, dovrebbe essere il nostro».
Invece?
«Invece il meccanismo delle autonomie che si è innescato non fa altro che proteggere i sistemi di burocrazia, praticamente ignorando il principio dell’uguaglianza. La burocrazia è ormai giunta da tempo a livelli insostenibili sia dal punto di vista dei costi sia per l’inefficienza che determina. Ed è diventata una giungla che opprime i cittadini, che si trovano a fare i conti con otto-nove livelli di governo, per di più tutti “irresponsabili” di tutto».
Qualche soluzione?
«Per esempio, non si capisce perché le Regioni debbano gestire direttamente i servizi sanitari regionali. Dovrebbero essere enti di regolazione e programmazione, con funzioni di coordinamento ,di indirizzo e soprattutto di controllo, ma non di gestione dei servizi. Quest’ultima, invece, dovrebbe essere affidata alle Provincie, anche aggregate, o a enti intercomunali».
E potenziare i sistemi informatici può contribuire in qualche misura?
«Certamente sì. L’introduzione di nuove tecnologie può essere molto importante, così come di nuovi modelli organizzativi e di formazione degli operatori. Purtroppo, in Italia siamo molto indietro in questo campo, anche da un punto di vista “culturale” e c’è un’innegabile resistenza “istintiva” al cambiamento, al passaggio dalle procedure tradizionali a quelle più innovative, a internet. Lo stesso ministro Brunetta ha fatto molte promesse da questo punto di vista, ma non le ha mantenute. Forse dovrebbe lavorare di più e parlare meno».