di Pieluigi Mantini
La conferma assai opportuna di Giorgio Napolitano al Quirinale ha riaperto il cammino delle riforme, il discorso programmatico di Enrico Letta sulla Convenzione è stato netto e chiaro, la nomina del ministro delle riforme nella persona di Gaetano Quagliariello è appropriata e beneaugurante.
I fatti, in rapida evoluzione, si incaricheranno di dare risposte nel breve periodo ma l’avvio è un po’ confuso. Sono emersi tre nodi: la Convenzione, il rapporto con la legge elettorale, i contenuti dell’agenda delle riforme.
Del primo tema diremo in fine mentre sul secondo dovrebbe prevalere il buon senso: si corregga intanto “l’abuso maggioritario” del cd. porcellum e poi si potrà anche pensare ad una nuova legge elettorale coerente con la nuova forma di governo (modello Parigi, Berlino o Londra).
Ma è sui contenuti delle riforme che intendiamo soffermarci per sostenere la tesi che andrebbe ripresa tout court l’agenda dei “saggi” nominati, solo poche settimane fa, da Napolitano senza ricercare nuove elaborazioni. Quel documento è la sintesi precisa del cammino delle riforme, del suo approdo e anche dei nodi da sciogliere, ma in via politica, non tecnica.
Occorre piuttosto la traduzione normativa di quel documento, che il governo dovrebbe curare attraverso specifici disegni di legge da proporre alla Convenzione. Una strada nota, affidabile, più celere.
Le riforme istituzionali sono necessarie all’Italia e la bozza dei saggi nominati da Napolitano costituisce un punto imprescindibile di partenza.
Prima di approfondire i temi, una riflessione preliminare merita la storica rielezione di Giorgio Napolitano, per un secondo mandato al Quirinale che molti hanno interpretato come un’accelerazione verso il presidenzialismo. Dopo quello di Monti anche il governo Letta, in sostanza, sarebbe un “governo del presidente”. Ma, occorre chiedersi, ciò è il segno di un presidenzialismo ineludibile o il buon risultato della tenuta del parlamento dinanzi alla crisi dei partiti e dei governi e del necessario ruolo “terzo” del Presidente della Repubblica, arbitro delle crisi politiche?