La questione industriale italiana è a un bivio. Gli elementi di debolezza strutturale esercitano ogni giorno la loro forza corrosiva sui gangli più delicati della nostra manifattura. Nonostante questo, i processi evolutivi di quest’ultima proseguono lungo le traiettorie della globalizzazione, che con le sue durezze ma anche le sue opportunità sta costringendo le imprese e i sistemi distrettuali a sperimentare (o a subire) metamorfosi dolorose ma vitali.
Intanto, però, sotto la pelle del sistema si sta accumulando l’energia distruttrice che potrebbe da un momento all’altro esplodere e propagarsi se una serie di crisi industriali, prima fra tutte l’Ilva, non trovassero una soluzione o se una serie di gravi avversità naturali, in particolare il terremoto in Emilia Romagna, a conti fatti fossero state affrontate dal governo con scarsa efficacia.
Le criticità di sistema
Non esiste soltanto lo spread finanziario. O, per meglio dire, quest’ultimo è una delle componenti dello spread industriale, che rappresenta quell’insieme di deficit di sistema in grado di appesantire la quotidianità e di annebbiare l’orizzonte strategico delle nostre imprese rispetto ai loro competitor europei, tedeschi e francesi in particolare. Vai in banca, come imprenditore, a chiedere un fido? Se sei fortunato, cioè se alla fine decidono di attivarti una linea di credito, stando all’ultimo dato delle Bce pagherai il 5,63% di tasso di interesse per prestiti fino a un miione di euro (durata da uno a cinque anni) contro il 4,09% dell’area euro, il 3,76% della Germania e il 4,04% della Francia.
La questione finanziaria si aggrava se si pensa che, stando all’ultimo rapporto PriceWaterhouseCoopers, in Italia le imposte sulle imprese si portano via il 68,3% dei profitti, venti punti in più rispetto alla Germania. Non c’è, naturalmente, solo quello.
Secondo Nomisma Energia, l’energia usata nelle fabbriche lombarde o marchigiane, nei laboratori liguri o campani, costa il 40% in più, di nuovo, della media europea. La forbice sull’energia è ampia per tutti, ma diventa in prospettiva inesorabile per il delicato tessuto connettivo dei nostri piccoli produttori, inseriti nelle reti della subfornitura internazionale che (finora) li ha usati (e valorizzati) convinta dalla loro significativa elasticità e dalla loro rilevante capacità di comprimere proprio i costi finali. Con tali costi dell’energia, fino a quando durerà questa dimensione di subfornitura insieme low cost e ad alto valore aggiunto?
I fattori immateriali
Ci sono poi i fattori di contesto che influenzano anche la psicologia dell’imprenditore. La voglia, nonostante tutto, di stare sul mercato ogni giorno, alzando la serranda del laboratorio artigiano (uno dei luoghi simbolici delle economie di territorio analizzate per esempio dalla Fondazione Edison) o connettendosi con la consociata brasiliana o coreana, nel caso delle medie imprese ultra-internazionalizzate studiate dall’ufficio studi di Mediobanca.
Uno dei delicati fattori psico-economici è il problema di ottenere giustizia. Stando alla World Bank, infatti, se un imprenditore italiano si rivolge a un tribunale per fare rispettare un accordo contrattuale a una sua controparte, impiegherà qualcosa come 642 giorni in più per avere “giustizia” rispetto alla media comunitaria. La cosa diventa molto difficile, per gli imprenditori che fanno dell’etica una stile aziendale oltre che una questione privata, se si pensa al livello di corruzione in cui ogni giorno devono operare.
Transparency International, infatti, ha costruito una scala che va da 1 (massima corruzione) a 10 (minima corruzione): l’Italia è a 3,9, la Germania è a 8. Un altro fattore di contesto che ha questa doppia componente economico-psicologica è rappresentato dal rapporto con la tua comunità. Il tuo Paese. Il tuo Stato. In questo caso, basti un dato per definire l’aggravio strutturale dei costi derivante dall’appartenenza italiana: il peso della burocrazia, secondo World Bank, provoca un aumento del costo del 20% di qualunque attività di logistica legata alla circolazione dei beni sui mercati mondiali. Piombo nelle ali, per una economia così radicalmente manifatturiera.
La vitalità del sistema
Eppur si muove. Nonostante tutto. Il processo di metamorfosi avviatosi con il declino della grande impresa pubblica e privata prosegue, in un quadro di rimpicciolimento (ma anche di miglioramento qualitativo e della produttività) dell’economia italiana. E si avvertono segnali di vitalità. La Lombardia ha cambiato passo fuori dalla ristretta cinta daziaria europea. Fatto cento l’export, negli ultimi tre anni le imprese hanno orientato il 60% dei loro flussi commerciali verso i Paesi extra Ue, limitando al mercato comunitario il 40% della loro attività. Le proporzioni si sono dunque ribaltate: prima erano 60% nella “vecchia” (e dalla crescita asfittica) Europa e 40% sul resto dei mercati globali. L’export resta la chiave di tutto. Nel Piemonte scosso dal costante svuotamento produttivo e strategico della Torino della Fiat, nel primo semestre l’export della metalmeccanica regionale ha avuto un ammontare di 6,3 miliardi di euro, in aumento di addirittura del 13,6 per cento. Segno che la cultura industriale più core resta radicata ed efficiente. Lo stesso vale per il lusso.
Per esempio nel Valdarno, dove il trinomio cuoio-pelle-calzature attrae le griffe della moda in uno dei principali laboratori del mondo di artigianato-industriale: 2mila aziende con 3 miliardi di ricavi, 2 appunto da export. Aziende che avrebbero bisogno di tremila addetti da assumere all’impronta. E non li trovano. Un altro fenomeno interessante è Parma, uno dei cuori di quell’esperienza al crocevia di meccanica e agroalimentare, chimica-farmaceutica e impiantistica raccontata dall’economista prodiano Franco Mosconi nel saggio del Mulino La metamorfosi del modello emiliano. L’Emilia Romagna e i distretti industriali che cambiano. Un moderno granducato della forchetta e dell’industria fine che, anche nel 2011, ha visto la produzione salire del 5,8 per cento. In quella cosa sorprendente che è il mosaico italiano composto da mille piccoli tasselli, spiccano peraltro i buoni risultati del distretto dell’acqua, dell’olio e del vino del Vulture, in Lucania, dove oltre ai successi internazionali dell’Aglianico si conta la recente acquisizione dell’Acqua Lilia da parte della Coca Cola.
Le incognite
La direzione che prenderà la questione industriale italiana sarà anche il risultato della gestione (buona o cattiva) di una serie di dossier che si affastellano. Nell’anno in cui la recessione ha scaricato tutta la sua forza sugli apparati della manifattura internazionale, l’Italia sta affrontando una serie di problemi rilevanti.
Quest’estate il terremoto ha colpito una parte dell’Emilia Romagna, provocando danni per 12,2 miliardi di euro (il 43% alle imprese). Scaduti i benefici fiscali, l’accesso effettivo di chi ha subito danni ai 6 miliardi della Cdp sarà uno dei fattori che determineranno la ripresa finanziaria di un’area che, dal punto di vista dell’attività, è per l’80% di nuovo al lavoro. C’è, poi, il tema del posizionamento internazionale di quel (poco) che resta della nostra grande industria. Per esempio, Finmeccanica, uno degli ultimi presidi della nostra manifattura hi-tech, per di più in un settore strategico come l’aerospazio. Uno snodo insieme delicato e robusto che rappresenta, sullo scacchiere globale, l’interesse nazionale, con il suo patrimonio tecnologico diretto e indiretto, dato che il capitale di innovazione di Finmeccanica si promana su molte filiere industriali.
Un’azienda che non può essere lasciata “sola” e debole, con un management senza agibilità di manovra e senza certezze. La questione dell’identità industriale si intreccia con la questione della politica industriale. Fra le mille crisi, la più grave è quella dell’Ilva, con gli effetti devastanti che una chiusura dell’acciaieria di Taranto provocherebbe. Effetti sociali. Ventimila nuovi disoccupati da un giorno all’altro.
Gli effetti economici
Da Taranto si alzerebbe uno tsunami che investirebbe prima quello che Giorgio Fuà chiamava modello Adriatico, per poi dirigersi sul Nord-Est e dilagare verso il vecchio triangolo industriale. I detriti più grossi? Una immediata crisi di approvvigionamento nell’acciaio delle nostre imprese, i cui costi industriali salirebbe in maniera direttamente proporzionale al calo della loro produttività, più una rapida calata di operatori stranieri (i franco-indiani di Arcelor Mittal e i tedeschi di ThyssenKrupp). Senza le giuste scelte, il paesaggio industriale italiano rischia di mutare. E non in meglio.
Paolo Bricco, Il Sole 24 Ore