La nuova guerra di Gaza, che stavolta coinvolge anche Tel Aviv e Gerusalemme, è cominciata pochi giorni fa, con l’assassinio del capo militare di Hamas, Al-Jabari. L’attentato va ad aggiungersi a quelli già compiuti contro altri capi di Hamas, poi prontamente sostituiti.
Ma al-Jabari andava tenuto in vita solo per una ragione, molto pratica: era a capo dell’ala militare da dieci anni, era esperto e aveva gestito bene, cioè in modo impenetrabile, la prigionia di Shalit. Disponeva di missili iraniani ma aveva anche una strategia più ampia. E secondo il New York Times aveva appena ricevuto, da canali egiziani e israeliani non ufficiali e non chiari, una proposta di tregua lunga con Israele (1). Il suo vice, Marwan Issa, ne ha già preso il posto e una fonte israeliana (Debka) l’ha prontamente definito filo-iraniano.
Pugno di Netanyahu
La scelta di eliminare al-Jabari oggi e non un anno fa, dopo il rilascio di Shalit, corrisponde ad un preciso segnale. Ad Hamas, che controlla Gaza e vede crescere il suo ruolo in Cisgiordania. Ma anche al presidente dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) Abu Mazen, l’ultimo della vecchia guardia di Arafat, che pure aveva dichiarato, all’inizio di novembre, che non avrebbe permesso una terza intifada. Parole che erano anche un avviso accorato: dopo di me il “diluvio” di una nuova generazione di leader.
Le aperture di Abu Mazen sono state accolte in modo sprezzante: il ministro degli esteri israeliano Lieberman ha minacciato di “destituire” Abu Mazen, e il governo di Tel Aviv ha discusso una serie di contromisure nel caso in cui, alla fine di novembre, l’Assemblea generale dell’Onu dovesse valutare positivamente la richiesta dell’Autorità palestinese di essere riconosciuta come membro non-statuale all’Onu.
Il governo Netanyahu, subito dopo la sconfitta di Romney alle presidenziali, ha quindi scelto di rispondere ai razzi da Gaza con un assassinio più o meno mirato. Le elezioni nazionali a gennaio e la ripresa del dialogo tra il 5+1 e l’Iran dopo la rielezione di Obama, sembrano aver accresciuto la risolutezza del governo per compattare il fronte interno e mandare un chiaro segnale all’esterno.
Ma quello di oggi è un Medioriente molto diverso da quello di quattro anni fa, quando il governo Olmert (Kadima) indisse elezioni e lanciò l’operazione “Piombo Fuso” contro Gaza (dicembre 2008-gennaio 2009). Il governo di Netanyahu sembra usare la stessa logica, e ha deciso una mobilitazione militare ben maggiore, per entrare a Gaza, salvo contrordine dell’ultimo minuto. Ma non si capisce quale sarebbe l’obiettivo delle truppe israeliane: distruggere basi e missili di Hamas? Perquisire Gaza eliminando o arrestando miliziani? Rioccupare come è avvenuto nel Libano del Sud?
Asse Egitto-Turchia
Ma gli assetti regionali sono cambiati. Su Gaza, in particolare, si sta consolidando un’intesa tra Turchia, vecchio e ormai perduto amico di Israele, e l’Egitto del presidente Morsi, che ha decretato la fine dell’isolamento della striscia e deciso una politica più protettiva, sia pure con prudenza. I loro sforzi sono incoraggiati dal presidente Obama, che sostiene Israele ma teme una escalation.
Un’intesa tra Ankara e il Cairo può determinare un asse lungo cui si allineeranno i nuovi equilibri del Mediterraneo e del Medioriente, con implicazioni che non piaceranno a Israele. Il cui isolamento si sta accrescendo, con conseguenze anche preoccupanti se verrà davvero lanciata un’offensiva di terra in coincidenza con l’Assemblea generale dell’Onu di fine novembre.
Il mondo arabo invia a Gaza illustri rappresentanti, preludio forse a iniziative politiche più concrete cui stanno pensando il presidente Morsi, il primo ministro turco Erdogan ed il principe ereditario del Qatar, in contatto anche con esponenti di Hamas. La via d’uscita cui lavorano punta sulla limitazione della reazione di Hamas attraverso garanzie e programmi politici ed economici di lungo termine. Cercando il consenso degli altri paesi, arabi e non.
La possibile conclusione dell’isolamento di Gaza non è una buona notizia per Israele, che invece lo vede come necessaria premessa al mantenimento dello status quo da cui ritiene, forse non senza miopia, di aver solo da guadagnare. Israele è scivolato da molto tempo nella logica secondo cui la questione palestinese non si può risolvere ma solo gestire, e la Cisgiordania non è territorio occupato ma bensì disputato. Infatti lo chiama Giudea e Samaria, come nell’antico Israele.
Tregua lunga
L’opinione pubblica di Israele è esasperata dai lanci di razzi, ma il governo attuale e quello futuro non vedono altra soluzione che non sia quella militare. Perché non ci sono dubbi che Netanyahu rivincerà le elezioni, rimane solo da vedere come e che governo formerà. Non esistono alternative, la sinistra si è liquefatta e il centro di Kadima affronta le elezioni tra grandi incertezze.
Con un nuovo governo Netanyahu e dopo una seconda guerra di Gaza, lo scenario è l’isolamento di Israele e il delinearsi di politiche costrittive, dichiarate e non. La percezione di Hamas come organizzazione terrorista, inoltre, sta mutando: il vero pericolo nel Medioriente di oggi sembrano più i salafiti. Hamas, organizzazione politica che usa metodi terroristici, ha compiuto lo stesso percorso dell’Olp e non solo.
Temi che l’elettore israeliano medio ignorerà. In Israele si parla solo di sicurezza e di risposte attive, alla prossima possibile bomba iraniana, ai razzi di Hamas, ma anche all’incomprensione dell’opinione pubblica internazionale. La nuova guerra di Gaza è combattuta anche su Twitter, e senza quartiere. Ma i messaggi dell’esercito di Israele sono molto meno efficaci delle foto di bambini di Gaza.
Nel Medioriente che cambia, la soluzione è un accordo di pace, con tutti. Trascuriamo la Siria, con cui pure c’erano stati contatti riguardo al Golan, e rimaniamo all’Autorità palestinese, prima che anche Abu Mazen esca di scena, e soprattutto ad Hamas, che parla di tregua lunga ma non di pace con il “nemico sionista”.
Concetto che fa inorridire molti e non solo in Israele, ma bisognerebbe riflettere che una tregua lunga (50? 100 anni?) è più duratura di tante paci. E chi, dopo una lunga, pacifica, magari prosperosa tregua, vorrebbe di nuovo una guerra? Lo dice anche un bizzarro e forse profetico rabbino che vive tra i coloni e ha ottimi rapporti con Hamas. Rabbi Fruman vuole una tregua lunga: dice che serve a dare il tempo a Dio di creare una pace vera. Certo, bisognerà rinunciare alla Cisgiordania, o a gran parte di essa, ma qualcuno ha già disegnato mappe (2) che si potrebbero ristudiare.
Perché alla fine, la nuova guerra di Gaza non è solo a proteggere Israele dai razzi di Hamas, ma anche alla crescita degli insediamenti in Cisgiordania, che il governo Netanyahu continua a promuovere.
Tempus fugit
Solo tra due mesi si conosceranno i nuovi termini della questione. Vedendo man mano quel che accade sul terreno, il voto dell’Assemblea dell’Onu, le iniziative arabe e non solo, il risultato delle elezioni in Israele e la composizione del nuovo governo. A quel punto, febbraio-marzo, tutti gli attori in campo capiranno quali sono le carte da giocare o lasceranno che il tempo passi. Ma il tempo non lavora per Israele, potenza nucleare e regionale ma con divisioni interne e una politica estera fratturata. È un paese più fragile di quel che si creda, il che determina situazioni complesse e pericolose, da cui difficilmente Israele potrà uscire da solo.
Si profila un futuro incerto, di crescente isolamento e di ovattate ma precise costrizioni, dichiarate o implicite, per portare o trascinare Israele a un tavolo di negoziato vero, o per lasciarlo a decidere da solo il suo futuro e le inevitabili conseguenze. Un altro tassello di instabilità in un Medioriente sempre più complesso.
(1) Vedi http://www.nytimes.com/2012/11/17/opinion/israels-shortsighted-assassination.html?.
Maria Grazia Enardu su affarinternazionali.it, ricercatrice di Storia delle Relazioni Internazionali e docente di Storia di Israele moderno, Facoltà di Scienze politiche, Firenze.