Il campo profughi costruito nel nulla del deserto giordano dove i rifugiati arrivano in centinaia a piedi nudi
Non chiamatelo campo: Zaatri, la grande tendopoli costruita nel nulla del deserto giordano, è già una città. Tre mesi fa non esisteva. Ora ha le prime strade con la ghiaia e l’asfalto, i pali della luce, qualche cucina collettiva, è il sogno proibito e l’incubo legalizzato di chi, nelle notti senza luna, scavalla i cinque passaggi lungo i 370 chilometri del confine: offre la salvezza, una tenda, ogni due settimane uno scatolone con la pasta, il tonno e la salsa di pomodoro, l’attesa su una landa sterminata che s’arroventa di giorno e raggela la sera.
Zaatri è la bandiera gialla dell’epidemia siriana che si sta allargando: i profughi arrivano col buio a onde di 400-500, a piedi nudi o in pigiama, la metà sono bambini che i grandi stordiscono di sonniferi, perché non strillino durante la fuga, un terzo sono donne che si portano pure i figli di chi non ce l’ha fatta, gli altri sono storie inascoltabili di ragazzini torturati dalla soldataglia di Assad con l’acqua bollente perché denunciassero i parenti ribelli, mani spappolate, disertori che si nascondono la faccia, palestinesi che vengono chiusi in un campo a parte perché «apriamo le braccia a tutti – spiega gelido Anmar Al Hmoud, portavoce del governo -, ma sui palestinesi vogliamo un controllo, qui sono già tanti, altrimenti chiamano anche le loro famiglie…».
ATTESI 250MILA IN FUGA – L’Unhcr, l’Alto commissariato Onu, dice che i rifugiati in Giordania sono più di 100mila. I giordani ne contano il doppio. Tutti sono d’accordo che d’inverno diventeranno 250mila, ma il calcolo resta difficile, perché tre su quattro fanno come il taxista di Aleppo con la figliola legata: vengono da vite di città e preferiscono l’invisibilità urbana, razzolare nei rifiuti, arrangiarsi coi lavori sottopagati, piuttosto che consegnare il passaporto e restare per chissà quanto in questo campo. Scelgono la Giordania perché si parla arabo, non come in Turchia. Evitano l’Iraq, la brace dopo la padella. Sperano che la guerra rimanga lontana almeno da qui, non come nel Libano delle autobombe.
Pia speranza, il contagio bellico è già più d’un rischio: domenica, sono stati arrestati ad Amman undici salafiti che preparavano attentati alle ambasciate occidentali e nei centri commerciali; lunedì è morto il primo soldato giordano in una battaglia sulla frontiera coi jihadisti che contrabbandano armi; martedì, sono stati bloccati sette siriani con satellitari e sofisticati gps…
POCHI AIUTI DALL’ESTERO – A Zaatri serve tutto, perché non diventi un vivaio di disperati pronti a tutto. L’Onu fa quel che può, i progressi dopo tre mesi si vedono: hanno aperto tre ospedali, il flusso oggi è più ordinato e c’è una procedura speciale per i profughi single, uomini che arrivano soli e spesso si sospetta che siano reclutatori, combattenti, sobillatori, trafficanti. La fuga dalle bombe è incontenibile e la Giordania stima che solo qui l’emergenza sia da 700 milioni di dollari: per assistere tutt’e quattro i Paesi confinanti, travolti dalla crisi, non se ne sono trovati nemmeno duecento. Qualche tempo fa, è venuta al campo Angelina Jolie, per far sapere al mondo che qui c’è bisogno. Qualche mattina fa, s’è presentata una delegazione della Lega araba: visita di un’oretta, elemosina di 35mila dollari. Alla stessa ora, è passata anche Lady Ashton, la responsabile Ue per la politica estera: una «presa di visione», dopo che 180mila siriani hanno chiesto asilo politico in Europa, goodbye alla prossima.
In Italia, dopo un anno e mezzo di guerra e oltre 30mila morti, sono stati raccolti sì e no 60mila euro: va bene la crisi e la paura di nuovi immigrati, ma negli ultimi vent’anni non s’è mai vista una cifra così bassa, per emergenze di questo tipo. «Molti soldi promessi non sono arrivati – osserva Laura Boldrini, responsabile Unhcr -, occorre un intervento urgente dei privati, perché queste persone devono affrontare un inverno sottozero».
A Zaatri, la distribuzione del cibo è disciplinata da cinque barriere di reti, ogni tanto parte qualche protesta e si deve chiudere. Mancano ancora i canali di scolo per le piogge, non c’è un cimitero, né una moschea. Per giocare, i bambini hanno solo i sassi. Le scuole appena aperte distribuiscono già i libri, però hanno una media d’un maestro ogni 70-100 alunni: «Riusciamo giusto a tenerli qualche ora seduti – spiega Shaheer Al-Shraa, 32 anni -. Sono ancora troppo scioccati. Ieri ho provato a farli disegnare: descrivete com’è la vostra casa in Siria. Hanno lasciato tutti il foglio bianco». Qualche giorno fa, l’Onu ha organizzato la distribuzione di qualche soldo: è scoppiata una mezza rissa e s’è dovuto sospendere.
UN’ALTRA BAGDAD «Un proverbio beduino dice che l’ospitalità è sacra per i primi tre giorni», sospira Hmoud, il portavoce del governo: «Abbiamo avuto le ondate dei palestinesi, abbiamo avuto gl’iracheni. Non possiamo sopportare un’altra Bagdad alle porte di casa». I primi mesi, i giordani hanno collaborato con l’Unhcr e messo a disposizione medici e insegnanti, hanno lasciato che i siriani si rifugiassero dove volevano. Ma quando i prezzi delle case e dei generi alimentari sono cominciati a salire, mentre il lavoro nero veniva sempre più sottopagato, quando s’è scoperto che nel Paese più assetato del Medioriente i profughi consumavano un milione di litri d’acqua al giorno, l’aria è cambiata: un sondaggio rivela che il 65% dell’opinione pubblica vorrebbe già chiudere Zaatri, l’80% vorrebbe chiudere le frontiere. La tensione non è ancora esplosa, l’accoglienza resiste, ma i mesi futuri potrebbero farsi complicati. Nel campo, qualcuno ha aperto spacci di frutta e verdura e c’è chi s’improvvisa barbiere dietro un muretto con lo spray «Bashar vattene!», un chilo di pomodori al prezzo d’un taglio di capelli. Il divieto di lavorare è risaputo, i giordani non transigono. «Non è facile stare qui a far nulla», dice Firas Esam, 35 anni, professione ingegnere: lui era già scappato dall’Iraq nel 2004, sperava d’avere trovato un futuro a Homs, da dieci giorni ciondola a maledire nell’ordine i russi amici di Assad, le gallette nemiche dello stomaco, la memoria delle bombe a grappolo che ha visto cadere dal cielo. Della sua vecchia vita, gli è rimasto solo un telefonino per andare su Facebook e sapere che cosa succede di là: «Mio fratello vorrebbe passare il confine. Gli ho detto: scappi dalla morte, ma non aspettarti una vita».
Francesco Battistini, Corriere della Sera