Fase tre per la crisi dell’euro?

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Le prime due componenti della crisi dell’euro – una crisi bancaria causata dall’eccessivo indebitamento sia a livello pubblico che privato e seguita da una profonda perdita di fiducia nei governi dell’Eurozona – sono state affrontate con successo, o per lo meno lo sono state in parte. Resta però il terzo fattore alla base della crisi, il più pericoloso e prolungato nel tempo: lo squilibrio strutturale tra il nord e il sud dell’Eurozona.

Innanzitutto, la buona notizia: il timore che le banche europee potessero collassare, con la fuga degli investitori in panico verso la sicurezza, producendo una Grande Depressione Europea, ora sembra essere superato. Allo stesso modo, il timore, interamente alimentato dalla politica disfunzionale dell’Unione europea, che i governi dell’Eurozona potessero andare in default, causando le stesse terribili conseguenze, ha iniziato a dissiparsi.

Che l’Europa evitasse una profonda depressione dipendeva da come sarebbe riuscita a trattare adeguatamente questi due aspetti della crisi. Ma che l’Europa nella sua interezza riesca ad evitare decenni perduti di crescita economica dipende ancora dai bilanci, e dipende dalla possibilità o meno che i governi del Sud Europa riescano a rilanciare rapidamente la competitività.

Il processo con il quale il Sud Europa ha perso competitività è stato guidato dai segnali sui prezzi di mercato – dagli incentivi che quei segnali hanno creato per gli imprenditori e da come le singole risposte razionali degli imprenditori hanno agito in termini macroeconomici. I cittadini del Nord Europa con il denaro da investire erano disposti a concedere prestiti con condizioni straordinariamente facili a coloro nel Sud che intendevano spendere, e l’ampia spesa pre-2007 ha fatto sì che i datori di lavoro in quelle zone fossero disposti ad aumentare rapidamente i salari.

Di conseguenza, il Sud Europa ha adottato una configurazione in cui i livelli di salari, prezzi e produttività avevano senso solo nella misura in cui spendeva Ђ13 per ogni Ђ12 guadagnati, con il Nord Europa a finanziare l’euro mancante. Il Nord Europa, nel frattempo, ha adottato livelli di salari e produttività che avevano senso solo nella misura in cui spendeva meno di un euro per ogni euro guadagnato.

Ora se, come sembra verificarsi nella fattispecie, l’Europa non vuole che il sud spenda più di quello che guadagna e che il nord spenda meno, i salari, i prezzi e la produttività devono cambiare. Se non vogliamo guardarci indietro tra una generazione e lamentarci dei decenni perduti, i livelli di produttività del Sud Europa devono aumentare rispetto al nord, e i livelli di prezzi e salari devono scendere all’incirca del 30%, così che il sud possa pagare la propria quota con le esportazioni e il Nord Europa possa spendere i propri guadagni su quei prodotti.

Per preservare l’euro ed evitare la stagnazione si potrebbero prendere in considerazione cinque misure:

· Il Nord Europa potrebbe tollerare un’inflazione più elevata – due punti percentuali extra per cinque anni basterebbero a coprire un terzo dell’aggiustamento totale nord-sud;
· Il Nord Europa potrebbe espandere la democrazia sociale rendendo la previdenza sociale più generosa;
· Il Nord Europa potrebbe ridurre in modo sostanziale tasse e servizi sociali;
· Il Sud Europa potrebbe riconfigurare le imprese affinché diventino motori di produttività;
· Il Sud Europa potrebbe applicare la deflazione.

La quinta opzione è forse la meno saggia, perché implica quei decenni perduti e il collasso dell’Ue che l’Europa sta cercando di evitare. La quarta opzione sarebbe splendida; ma se qualcuno sapesse come portare le imprese del Sud Europa ai livelli di produttività del nord, l’avrebbe già fatto.

Quindi non ci resta che una combinazione delle prime tre opzioni, altrimenti note come politiche per rilanciare la crescita europea – una frase che appare in ogni comunicato internazionale. Ma i comunicati non entrano mai nello specifico. I tecnocrati europei sanno cosa significa adozione delle politiche per rilanciare la crescita europea. E così anche alcuni politici europei. Ma gli elettori europei no, perché i politici temono che parlarne sarebbe una mossa politica sbagliata.

Ma se l’Europa non si pone come obiettivo politico la combinazione delle prime tre opzioni nei prossimi cinque anni, si troverà di fronte a una dura scelta: o i decenni perduti per il Sud Europa (e forse anche per il Nord Europa) oppure continui squilibri nord-sud che dovranno essere finanziati mediante trasferimenti fiscali, ovvero tassando il nord.

I politici del Nord Europa dovrebbero essere più espliciti su cosa si intende realmente con politiche per rilanciare la crescita europea. Altrimenti tra dieci anni a partire da questo momento saranno costretti a confessare che le esitazioni odierne hanno imposto enormi debiti fiscali aggiuntivi sul Nord Europa. E ciò potrebbe rivelarsi una vera seccatura a livello politico.

 

Traduzione di Simona Polverino

J. Bradford DeLong, ex vicesegretario al Tesoro americano, è professore di economia presso l’Università della Californiana a Berkeley e ricercatore associato al National Bureau for Economic Research.

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