La difesa delle attività strategiche

forze armate 

Il Consiglio dei ministri ha approvato il 10 agosto, su proposta del ministro della Difesa, il Decreto che individua le “attività strategiche”, come previsto dalla Legge 56/2012.

Dopo il parere del Consiglio di Stato e la comunicazione al Parlamento diventerà così operativa la nuova normativa italiana per il controllo della proprietà delle imprese impegnate in attività strategiche nel campo della difesa. Per completare il sistema servirà un ulteriore tassello, il regolamento che dovrà definire organismi coinvolti e procedure (e anche chi dovrà coordinare all’interno della Presidenza del Consiglio dei Ministri l’esame delle acquisizioni).

Nel frattempo, la legge prevede che la competenza faccia capo al Ministero dell’Economia e Finanze per le imprese partecipate dallo Stato e a quello della Difesa per le altre. Considerando le numerose partecipazioni pubbliche (anche se a volte limitate) a quest’ultimo resteranno solo le piccole e medie imprese, le controllate da gruppi esteri e l’Iveco del gruppo Fiat Industrial.

Questo conferma quanto è estesa nel nostro paese la partecipazione pubblica al settore industriale della difesa. Alle imprese storicamente controllate dall’Iri si sono, infatti, aggiunte nel dopoguerra quelle controllate dalla finanziaria Ernesto Breda e quelle finite poi nel calderone dell’Efim. E, successivamente (anche nell’ultimo decennio), quelle abbandonate dai privati a volte perché in condizioni disastrose, a volte per monetizzare le loro partecipazioni. Si stima che circa l’80% delle attività industriali siano oggi controllate/partecipate dallo Stato.

Anche di questo bisogna tener conto quando si esaminano i possibili cambiamenti della struttura industriale italiana perché trovare investitori privati nazionali nel campo della difesa è stato fino ad ora un esercizio quasi impossibile. Di qui, molto più probabilmente, la trasformazione di alcune imprese (le maggiori) in public compagnie (quando le condizioni del mercato finanziario lo consentiranno) o l’acquisizione di altre (quelle che non hanno una dimensione tale da poter affrontare autonomamente la competizione internazionale) da parte di gruppi esteri.

È soprattutto quest’ultimo il processo di ristrutturazione e riorganizzazione che, attraverso la nuova normativa, bisognerà cercare di gestire.

L’obiettivo non è, quindi, quello di impedire acquisizioni estere, come semplicisticamente hanno sostenuto alcuni giornali, ma di renderlo possibile, limitando le potenziali conseguenze negative per gli interessi nazionali.

Quali sono i rischi? Sostanzialmente quelli legati alla sicurezza degli approvvigionamenti. L’operatività delle Forze Armate dipende dal mantenimento in efficienza e dall’aggiornamento dei mezzi in servizio e la loro efficienza dipende anche dalla capacità di padroneggiare l’evoluzione tecnologica. Un livello minimo di sovranità operativa dipende, a sua volta, dalla possibilità di veder soddisfatte alcune esigenze.

In altri termini, il mantenimento di determinate capacità tecnologiche e industriali è un fattore indispensabile per mantenere un minimo di capacità militari. A questo si aggiunge una considerazione che riguarda il livello tecnologico dell’industria nazionale: dopo aver via via perso pezzi importanti nel settore delle tecnologie di punta (informatica, comunicazioni, chimica, farmaceutica, nucleare, ecc.), l’aerospazio-sicurezza-difesa resta una delle poche aree ancora presidiate.

L’inevitabile processo di ristrutturazione che si sta profilando a livello europeo ed internazionale non deve, quindi, trasformarsi nell’ennesimo arretramento italiano. Per questo le capacità, così faticosamente sviluppate (oltretutto con ingenti finanziamenti pubblici), devono essere mantenute, al di là della loro proprietà.

A questo servirà la nuova normativa, consentendo di conoscere e valutare la strategia industriale dell’investitore e fissando, se del caso e caso per caso, condizioni e impegni per approvare il suo intervento. Anche in questo campo governo e amministrazione dovranno muoversi con cautela (per non “ingessare” il mercato) e con competenza (adeguando le richieste alle reali esigenze). Non esiste in Italia una tradizione in questo campo e non sarà, quindi, facile sviluppare un approccio pragmatico (basato su competenze economiche e industriali), evitando le trappole del formalismo giuridico e della burocratizzazione dei processi decisionali, di cui siamo maestri.

Buoni esempi potranno venire dall’esperienza inglese e americana, ma bisognerà adattarli al nostro sistema giuridico e amministrativo. Infine, bisognerà monitorare nel tempo gli impegni sottoscritti dagli investitori, verificando che non restino sulla carta e dimostrando che all’identificazione delle attività strategiche corrisponde un reale interesse al loro mantenimento e sviluppo. Le strutture preposte dovranno, quindi, essere capaci di esercitare un controllo sistematico e prolungato nel tempo.

Vi sono, però, tre aspetti generali che sembrano essere stati sottovalutati:
1) Lo Stato deve essere coerente e credibile. Se definisce un’attività “strategica” o, ancor più “strategica chiave”, deve tenerlo presente nel definire la sua politica industriale, della ricerca, delle acquisizioni e del supporto alle esportazioni. Lo Stato si è assunto una precisa e grande responsabilità nel momento in cui ha ritenuto di definire una normativa specifica per il controllo degli investimenti nell’industria della difesa e della sicurezza. Non basta e non può solo intervenire sull’assetto proprietario. Se vi è un interesse generale a tutelare il mantenimento di determinate capacità tecnologiche e industriali sul territorio nazionale, questo stesso interesse deve pesare anche nelle attività di governo coinvolte.

2) Per quanto perfetta nessuna normativa può imporre di mantenere un’attività economica in perdita. Le imprese restano e crescono se sono efficienti e competitive. Questo significa che devono poter operare in condizioni di parità con i concorrenti. In termini generali è riconosciuto da tutti che il mercato italiano è ancora lontano dal livello di efficienza dei principali paesi europei. Nel caso della difesa e sicurezza il distacco è ancora maggiore: basti pensare alla nostra normativa sul controllo delle esportazioni o alla mancanza di una pianificazione a lungo termine delle spese per la difesa o ai ritardi nei pagamenti delle commesse militari.

3) Poiché questo settore è fortemente condizionato dai finanziamenti pubblici (acquisizioni e partecipazione ai programmi internazionali di armamento da parte della Difesa e sostegno alla Ricerca e Tecnologia da parte di Difesa, Sviluppo economico e Ricerca), solo la certezza di un livello adeguato di spese per la difesa e, in particolare, per gli equipaggiamenti può rassicurare gli investitori e garantire il mantenimento delle imprese. Le stesse possibilità di esportazione ne sono condizionate perché è l’utilizzo da parte delle Forze Armate che qualifica i prodotti italiani di fronte ai potenziali clienti esteri. Solo se la Difesa potrà continuare a finanziare i suoi programmi di ammodernamento, le imprese resteranno, indipendentemente dalla bandiera.

Di tutto questo è bene essere consapevoli per non cadere nell’illusione che la regolamentazione della proprietà nel mercato della difesa rappresenti la soluzione di tutti problemi.

 

Michele Nones, AffariItaliani.it, Direttore dell’Area sicurezza e difesa dello IAI

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