Morsy Presidente
Strano destino, quello di Mohammed Morsy. È il primo presidente (civile) democraticamente eletto in una storia – quella dell’Egitto repubblicano – ormai lunga oltre mezzo secolo. Morsy è anche l’uomo che, in un certo qual senso, riscatta un’altra lunga storia egiziana, vecchia di oltre ottant’anni: quella della Fratellanza Musulmana, una storia fatta di repressioni, retate, arresti, scontri con tutti i presidenti che si sono succeduti da Gamal Abdel Nasser a Hosni Mubarak.
Eppure, Mohammed Morsy non incarna né la figura del leader carismatico né quella del rivoluzionario. Non è Nasser e non è neanche uno dei ragazzi di Piazza Tahrir.
Nuovo conformismo
Mohammed Morsy Issa al Ayat è in fondo, oggi, l’uomo meno invidiato di un Egitto ostaggio di una transizione viziata ab origine. Poco meno della metà di coloro che si sono recati alle urne ha preferito un nome del tutto organico al vecchio regime, un ex militare di carriera come Ahmed Shafiq, che il giorno dopo la sconfitta ha preferito lasciare l’Egitto mentre girava la voce di un’indagine nei suoi confronti per corruzione.
E molti di coloro che Morsy lo hanno invece votato, non hanno nascosto la loro distanza dalla Fratellanza Musulmana. Lo hanno scelto solo per segnare la discontinuità con il regime guidato da Hosni Mubarak, votando il leader del Partito Giustizia e Libertà solo per fermare Shafiq.
E allora? Chi rappresenta Morsy? Quale parte del paese? Non certo i vecchi clientes del regime, e neanche coloro che in questo anno e mezzo sono stati spinti a credere che il passato fosse meglio dell’insicurezza del presente. Non certo una parte dell’elettorato copto, quella stessa parte che nel periodo precedente aveva difeso i propri diritti e talvolta alcuni privilegi negoziando con il regime di Mubarak una sorta di status quo.
Eppure, Morsy rappresenta una parte non piccola del paese. Lui stesso un ingegnere, Morsy incarna nel suo cursus honorum e nella sua stessa professione un settore importante sia dell’elettorato sia della base di consenso della Fratellanza Musulmana. I professionisti, la media borghesia in odor di islamismo che si è ritrovata in un conformismo religioso diverso da quello imposto dal regime, e che dal sistema clientelare dei Mubarak era stato tenuto ai margini.
Certo, questo tipo di consenso non è determinante, per il destino di Morsy. È però un puntello importante, perché è espressione anche della politica del compromesso che il nuovo presidente egiziano ha dichiarato di voler seguire. È quel consenso necessario a dare un’impronta – per così dire – democristiana alla presidenza di Morsy.
Perché Morsy deve cercare, se vuol resistere il più a lungo possibile come primo capo di Stato civile dell’Egitto, di non farsi sconfiggere nel braccio di ferro in corso con il Consiglio militare supremo (Scaf). E per superare l’impasse di una presidenza dimezzata dagli emendamenti costituzionali imposti dallo Scaf, Morsy deve cercare alleati altrove. Nella sua base di consenso classica, e cioè nei militanti e nella maggioranza silenziosa che ha, negli anni scorsi, segretamente sostenuto la Fratellanza Musulmana. Soprattutto, però, Morsy deve cercare più sponde possibili all’interno del variegato mondo della rivoluzione egiziana.
Piazza e potere
Andare a piazza Tahrir prima ancora di andare a giurare di fronte alla Corte costituzionale come nuovo presidente egiziano, è stato per Morsy più di un gesto simbolico. È stata una necessaria mossa politica. La chiave è tutta nella richiesta di legittimazione da parte della piazza, riconoscendo alla rivoluzione del 25 gennaio (e alle altre rivoluzioni arabe) di aver segnato una discontinuità nella definizione del potere.
Il popolo ha chiesto la fine del regime, come recitava lo slogan primo del Secondo Risveglio arabo. E dunque è il popolo a dover legittimare chi al regime succede. Solo riconoscendo al popolo di essere di nuovo la fonte della legittimità del potere, Morsy può diminuire il ruolo del Consiglio Militare Supremo e della stessa magistratura egiziana. Un contrappeso che, seppur variegato com’è tutto ciò che è emerso da Piazza Tahrir, è fondamentale per poter superare un’impasse lunga mesi e mesi.
Cosa risponde Piazza Tahrir? Per il momento è troppo impegnata a comprendere la sconfitta segnata proprio dalla vittoria di Morsy, cioè a dire la sconfitta dei candidati alle presidenziali che erano stati espressione della piazza: Hamdeen Sabbahi, Abdel Moneim Abul Futuh, Khaled Ali.
Morsy, comunque, può beneficiare di una luna di miele sulla quale si sono trovati d’accordo tutti, all’interno del fronte rivoluzionario. Una luna di miele in cui, comunque, Morsy dovrà accontentare la rivoluzione, sia con gesti simbolici (per esempio, la liberazione di coloro che attendono di esser processati dalla giustizia militare), sia cooptando alcune delle personalità forti della piazza nel nuovo governo. Andando, certo, oltre la figura di Mohammed el Baradei come possibile primo ministro.
La tenaglia è evidente. Da una parte i militari, decisi a mantenere il potere e il controllo dello Stato, nonostante la sconfitta di Shafiq alle presidenziali. Dall’altra il negoziato in corso tra Morsy e le personalità di piazza Tahrir, per tessere alleanze e capire meglio il da farsi. In mezzo, lo stesso Morsy, probabilmente consapevole di subire i contraccolpi dall’una e dall’altra parte.
Paola Caridi (http://invisiblearabs.com/), giornalista Rivista Affari Internazionali IAI