Transizione a rischio
A pochi giorni da quelle che avrebbero dovuto essere le sue prime elezioni democratiche, la Libia è attraversata da un’ondata di violenza che rischia di pregiudicare i processi di pacificazione, stabilizzazione e transizione politica avviati dal Consiglio nazionale di transizione (Cnt) lo scorso ottobre. Gli scontri tra miliziani all’aeroporto di Tripoli, l’attacco al consolato statunitense a Bengasi e le violenze nel sud del paese sono soltanto i segnali più eclatanti di una situazione che sfugge sempre più al controllo delle autorità.
Il recente slittamento dell’appuntamento elettorale al prossimo 7 luglio rischia di inasprire ulteriormente lo scontro politico, che potrebbe degenerare se le elezioni dovessero essere nuovamente posticipate – come paventato da più parti – a dopo il Ramadan.
Illusione energetica
Sin dai primi giorni successivi alla morte di Gheddafi, Cnt e comunità internazionale hanno posto grande attenzione alla rapida ripresa della produzione di greggio e gas naturale, necessaria a garantire le risorse finanziarie per gestire la complessa transizione politica. In breve tempo, grazie anche alle incisive iniziative della compagnia italiana Eni, l’industria energetica libica ha ripreso a produrre a livelli che alla fine di ottobre non erano nemmeno ipotizzabili. A poco più di tre mesi dalla caduta del regime la produzione totale di greggio aveva già raggiunto 1,3 milioni di barili – circa il 90% rispetto ai livelli pre-conflitto – e oggi anche questo gap sembra essere stato praticamente colmato.
Si tratta di risultati sorprendenti anche dovuti al fatto che, in questi mesi, le infrastrutture energetiche libiche sono state quasi del tutto esenti da attacchi e sabotaggi. Le principali tensioni, infatti, sono state determinate da rivendicazioni delle popolazioni locali o da proteste dagli stessi dipendenti delle compagnie energetiche, che comunque non hanno condizionato il regolare svolgimento delle attività industriali.
L’eccezionale ripresa delle attività del settore energetico libico ha contribuito a creare un’immagine falsata del processo di transizione post-conflitto, facendo sottovalutare una serie di minacce che tutt’ora limitano la stabilizzazione del nuovo regime. Mentre infatti l’industria energetica procedeva in modo spedito e senza intoppi verso una completa ripresa delle attività, nel resto del paese conflitti latenti e lotte di potere tra diverse fazioni hanno raggiunto livelli estremamente preoccupanti, resi ancora più acuti dall’imminente competizione elettorale.
Lo spettro delle milizie
Il potere e l’influenza delle milizie rappresenta il principale elemento di destabilizzazione per il nuovo regime. Con la caduta di Gheddafi, i diversi gruppi armati coinvolti nella guerra civile non hanno smobilitato ma, al contrario, hanno approfittato del vuoto di potere per consolidarsi e rafforzare il controllo sul territorio. Approfittando dello stato di abbandono degli arsenali delle forze di sicurezza del regime, e grazie all’assenza di una controparte governativa in grado di garantire la sicurezza, i miliziani hanno assunto manu militari il controllo della politica locale.
Lo scontro tra le varie milizie e tribù locali si è intensificato a ridosso dell’appuntamento elettorale. A inizio giugno la brigata al-Awfea – a lungo fedele al Raìs – ha preso d’assalto l’aeroporto di Tripoli con tanto di carri armati, chiedendo alle autorità il rilascio di uno dei suoi leader. Nello scontro, risolto a stento grazie all’intervento delle forze governative, è stato coinvolto anche un gruppo di miliziani di Zintan, implicato per mesi nella gestione dello scalo internazionale.
La scorsa settimana, sempre le milizie di Zintan hanno preso parte ad altri scontri – causando oltre quindici vittime – nelle città di Mizda, a sud della capitale, e obbligando le autorità centrali a intervenire nuovamente inviando i militari per pacificare la situazione e proteggere la popolazione civile.
Le elezioni rappresenteranno un momento cruciale per la definizione del ruolo delle milizie nei meccanismi del nuovo regime. Tentare di limitarne il potere attraverso uno scontro frontale sembra difficile, nonché altamente rischioso, poiché potrebbe causare un’escalation di violenza cui le milizie sarebbero meglio preparate.
La strada da percorrere dovrebbe dunque prevedere una smobilitazione attraverso cooptazione. I leader dei principali gruppi dovranno essere in qualche modo integrati nelle strutture di governo del paese, mentre dal punto di vista operativo sarà necessario inglobare i miliziani nelle strutture di sicurezza – esercito e polizia – sia a livello nazionale che locale. Il processo di riabilitazione dei gruppi armati, tuttavia, è tutt’altro che automatico, soprattutto perché si intreccia con altre situazioni di conflittualità esacerbate dall’avvicinarsi della scadenza elettorale.
Fondamentalismo
L’intensificarsi dell’attività dei gruppi islamisti rischia di destabilizzare profondamente questa importante fase di transizione del paese. Nelle ultime settimane il terrorismo di matrice islamica ha messo a segno una serie di attacchi simbolici nella Libia orientale. A fine maggio è stata bombardata la sede locale della Croce Rossa internazionale a Bengasi. A inizio giugno, sempre nella capitale della Cirenaica, i fondamentalisti hanno assaltato prima il consolato americano, poi un convoglio diplomatico in cui viaggiava l’ambasciatore britannico in Libia. Secondo le fonti di sicurezza libiche, alla base delle violenze vi sarebbero le brigate dello sceicco Omar Abdel-Rahman, costola di al-Qaeda nel paese nordafricano.
Ma l’attivismo degli islamisti non si limita a iniziative di stampo jihadista. L’Islam radicale si prepara a scendere in campo nelle prossime elezioni grazie alla candidatura di Abdel Hakim Belhadj, ex capo del Gruppo combattente islamico libico e vicino agli ambienti qaedisti, che abbandonata la via della militanza ha deciso partecipare attivamente alla costruzione della nuova Libia. Il suo partito nazionale andrà a contendersi con il partito per la Giustizia e per la Costruzione dei Fratelli musulmani il voto dell’elettorato religioso, sebbene le ombre del suo passato rappresentino una forte incognita sull’impronta che Belhadj vorrà effettivamente dare al corso del nuovo regime.
Il puzzle libico è completato dalle tensioni sul fronte meridionale. Nel Fezzan e nella parte sud della Cirenaica la lotta per il potere politico si intreccia in modo violento con storiche rivalità di tipo etnico tra le popolazioni arabe e le tribù nomadi del Sahara. L’accesa ostilità tra i diversi gruppi è spesso fuori dal controllo del governo transitorio, che non dispone né dell’autorità né delle risorse necessarie per garantire la cessazione delle violenze nella regione.
Polveriera
Con l’avvicinarsi della scadenza elettorale l’insieme di questi elementi contribuisce a creare una situazione politica e di sicurezza estremamente esplosiva. LO scenario che la rapida ripresa delle attività energetiche aveva fatto sembrare un destino ormai improbabile – una Libia molto simile alla Somalia – non appare più così remoto agli occhi di un Cnt sempre più in balia della strisciante violenza tra fazioni.
La scintilla in grado di far detonare l’ordigno libico potrebbe essere l’ulteriore slittamento delle elezioni a dopo il Ramadan. Lo spostamento del voto a settembre, infatti, potrebbe essere interpretato da popolazione, forze politiche e milizie come il tentativo del governo transitorio di rallentare il passaggio di poteri al nuovo regime, e potrebbe dar vita ad una situazione in cui la lotta armata – e non i seggi elettorali – determineranno i nuovi assetti di potere nel paese.
di Nicolò Sartori è ricercatore presso l’Area Sicurezza e Difesa dello Iai